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L’INTERVISTA

Kiave: «Il rap mi ha salvato e adesso restituisco questi stimoli ai ragazzi delle periferie italiane»

Il cosentino Mirko Filice ha conosciuto l’hip hop grazie a un murale: 30 anni dopo è un art-educatore tra carceri e quartieri come Corvetto

Pubblicato il: 12/05/2024 – 16:04
di Eugenio Furia
Kiave: «Il rap mi ha salvato e adesso restituisco questi stimoli ai ragazzi delle periferie italiane»

COSENZA Il rap lo ha salvato da un’adolescenza senza stimoli in una città della profonda provincia meridionale, oggi cerca di “restituire” questa opportunità alle nuove generazioni che crescono in contesti difficili. «Anche se difficile è una parola che non mi piace – dice Mirko “Kiave” Filice, rapper e ingegnere del suono dopo gli studi in filosofia –, è una definizione che appiccicata ai contesti in cui lavoro non mi convince, anche perché oggi è diventato tutto difficile…».
Il Corriere della Calabria lo intervistò dieci anni fa quando il suo percorso era appena iniziato, ora si è aggiunto l’ennesimo tassello alla sua attività di educatore: un album (N.I.E.N.T.E.) che è il risultato del secondo capitolo del laboratorio “Up To You” nel quartiere milanese Corvetto. «Dico grazie per la fiducia e il supporto a Formattart, Aps molto presente a Corvetto capitanata da Iris Caffelli, all’indispensabile ausilio di Gigi Tufariello – commenta Filice –, ho fatto da direttore artistico al disco e abbiamo registrato, mixato e masterizzato il tutto negli studi Macro Beats nel quartiere Sarpi a Milano» (del paolano Marco Losso, anche lui una vecchia conoscenza della scena calabrese e non solo). «Questo – spiega Kiave – è un disco a tutti gli effetti, con basi originali prodotte dai sei ragazzi del laboratorio (J.An, kappaesse, Radin, Flo’w, Akira, Kiro), anche la copertina è autoprodotta e, sebbene io non rappi personalmente, mi ci rispecchio tantissimo e mi rende fiero. Un distributore ci permette di stare su tutte le piattaforme digitali».
Nel progetto sono coinvolti poi Artist First per la distribuzione digitale e AP – Accademia Popolare dell’Antimafia e dei Diritti; fondamentale anche l’apporto di Keep it real, una “comunità in cerchio”, la rete che unisce molti art-educatori in tutto il territorio nazionale: uno spazio progettuale promosso da daSud con il supporto di Fondazione Alta Mane Italia finalizzato a «favorire e facilitare un confronto tecnico tra artisti, enti del terzo settore, docenti, università e addetti ai lavori sui temi legati all’Hip hop come strumento di rigenerazione e ricostruzione del concetto di comunità in contesti di marginalità sociale e volto a contribuire allo sviluppo di processi educativi, alla co-progettazione di percorsi sperimentali, alla promozione di buone pratiche e alla definizione di linee guida operative comuni». Ma – aggiunge Mirko – «voglio ringraziare soprattutto i ragazzi che hanno partecipato: perché mi hanno confermato quanto l’hip hop sia condivisione, scontro ma unione; mi emoziona tantissimo vedere come siano stati loro a fare gruppo, loro a decidere tutto, a collaborare e a beccarsi fuori dagli appuntamenti prefissati. Li ho visti confrontarsi, discutere, cercare il meglio da ogni barra e supportarsi a vicenda, dalla registrazione, alla realizzazione di ciò che serve ad un disco, fino al live di domenica scorsa a Sabbioneta che è stato davvero una bomba: sembravano un gruppo che si esibisce da anni».
Come si è avvicinato al rap e che ruolo ha avuto la cultura hip hop nella sua crescita umana oltre che artistica?
«Il mio incontro con il rap e in generale con la cultura hip hop è avvenuto grazie a un graffito che vedevo tutte le mattine mentre andavo a scuola a piedi: recitava “Potere al popolo” e raffigurava un primo piano di Malcolm X. Io allora – siamo a metà degli anni Novanta – non sapevo nulla di quella forma di espressione. Questo murale mi dava energia, passare di lì significava affrontare al meglio la giornata. Allora mi sono informato e ho conosciuto altri ragazzi, miei coetanei, che si stavano approcciando alla cultura hip hop. Per fortuna in quel tempo Cosenza viveva un forte fermento culturale e c’era una fantastica scena hip hop che coinvolgeva sia il rap, con la South Posse capitanata da Dj Lugi (Luigi Pecora, figura mitologica della scena cosentina oggi rispettata non solo nell’underground, ndr), che il writing con la Asc che la break dance. La fortuna aggiuntiva è stata che il fratello di un mio compagno di classe, Roberto Grasso (che qui abbiamo intervistato all’interno della rubrica Calabrians), membro della crew Asc: non dimenticherò mai di quel pomeriggio in cui si mise di buona lena e con calma a spiegarci cosa fosse la cultura della doppia H. Di lì mi sono appassionato prima del writing poi del rap: a Radio Ciroma (radio comunitaria cosentina fondata nel 1990, ndr) c’era una trasmissione che a tutt’oggi ritengo fondamentale per la storia dell’hip hop non solo cosentino ma nazionale, “Rumori&Parole”, lì sentii per la prima volta un freestyle (improvvisazione in rima al microfono, su una base strumentale, ndr) e me ne innamorai. Da lì iniziai a rappare: la cosa che mi ha spinto di più a entrare con tutto me stesso in questa cultura è stato il senso di appartenenza: io volevo sentirmi parte di qualcosa, condividere un movimento e i suoi cardini come la lotta alle discriminazioni, la riappropriazione dei territori, il rappresentare la propria città di provenienza. E proprio quello mi ha reso una persona migliore: appena mi sono approcciato al freestyle ho chiesto consigli a Lugi, che per tutta mi risposta – alla mia domanda sul perché non trovassi le parole al microfono – mi chiese “Ma quanti libri hai letto in vita tua?”… Quello fu un grande insegnamento e misi subito in pratica il suo suggerimento. Avevo 15 anni e inizia a leggere come un forsennato: avevo bisogno di vocaboli da usare nei testi. A differenza di quanto adesso i media e i social vogliano far credere, l’hip hop rende le persone migliori: l’ho visto su di me, avrei potuto passare la mia adolescenza a non fare nulla tutto il giorno, ad essere sopraffatto dalla noia e magari a finire in qualche trappola…».
Può fare un consuntivo della sua ormai decennale attività in laboratori tra scuole, teatri e carceri?
«Da dodici anni conduco questi laboratori nelle carceri, che hanno sempre avuto come esito degli album prodotti all’interno della casa circondariale. Poi in comunità, centri di aggregazione, centri diurni, centri giovanili. A guidarmi è il grande senso di debito nei confronti della cultura hip hop: io so che sono stato salvato da lei, ma non nel senso banale o superficiale del termine, come si usa adesso. L’hip hop mi ha dato un obiettivo e una visione: può fornire i mezzi per far confluire la negatività in qualcosa di creativo e costruttivo, grazie all’arte in tutte le forme: visiva con i graffiti, musicale con il rap e il djing e infine con la danza. Dai testi che poi compongono gli album emerge la voglia dei ragazzi di poter urlare al mondo “io vivo, io esisto, io sono qui” che è poi l’unica formula per spiegare la genesi dell’hip hop, di cui l’estate scorsa si sono celebrati i 50 anni».

Mirko Filice in arte Kiave (foto kiave ph. Masiar Pasquali)

Da art-educatore, pensa che la musica possa rappresentare una possibilità di riscatto?
«Sì, assolutamente. Io ne sono convinto da sempre. Il problema del legame tra criminalità e rap però oggi esiste e i laboratori che conduco servono anche a rispondere ai tanti ragazzi che mi dicono “farsi arrestare fa curriculum musicale” che non è così: bisogna riequilibrare la percezione della realtà che ci offrono social e mass media, finire in galera non serve a far vendere più dischi. Il rap offre i mezzi per una rivalsa sociale, è così da sempre: la storia di questa cultura nasce con i neri ghettizzati nelle periferie di New York che si sono inventati qualcosa per emergere, che ha rivoluzionato tutta la cultura pop degli ultimi cinquant’anni partendo da zero. Una delle domande che faccio sempre ai ragazzi è: che budget avevano gli inventori dell’hip hop? Nulla. È facile citare De Andrè: dai diamanti non nasce nulla, e invece guardate cos’è uscito fuori da quella merda, un fenomeno che ha contribuito anche alla lotta contro il razzismo e le discriminazioni verso la comunità afroamericana. Anche oggi e anche in Italia, nei quartieri più disagiati, bastano un foglio, una penna, un beat e una storia da raccontare per potersi esprimere ed emergere. Le esperienze in carcere mi hanno insegnato questo: lì non ci sono i mezzi, non c’è né  internet né uno studio di registrazione – ne porto io uno mobile – eppure basta poco a livello materiale, per potersi esprimere serve tanto a livello spirituale e umano. È quello che riesco a ottenere dai ragazzi grazie alla musica».
Ci può illustrare l’ ultimo progetto, quello che ha dato vita a “Niente”? 5
«L’anno scorso sono usciti già 11 brani, disponibili su SoundCloud, nella prima parte del percorso laboratoriale Up to You: quest’anno hanno partecipato alcuni ragazzi tra cui è accaduto come un miracolo, hanno fatto gruppo in modo spontaneo e sono rimasti coesi, hanno scelto di fare un disco e io li ho solo guidati nella scelta delle strumentali. Un altro aspetto importante da sottolineare è proprio la produzione musicale, che quest’anno è originale mentre in passato si usavano basi già edite ed esistenti: anche i ragazzi hanno lavorato alle strumentali con me e Macro Marco in studio. È stato qualcosa di unico e primordiale. Posso già anticipare che ci sarà un Up to You 3, un altro tipo di laboratorio con ragazzi più giovani: a breve usciranno nuovi brani su SoundCloud».
Quali sono le prossime iniziative in programma?

«In questi giorni sto conducendo un laboratorio nel centro diurno Fanciullezza di Porta Venezia, poi ne inizierò un altro a Vicenza. La mia vita è questa e anche se non ho più tempo da dedicare al mio rap sono molto soddisfatto così: a questo punto della mia vita ho molto più stimoli da direttore artistico che da rapper, il mio ego non ha bisogno di rifocillarsi di feedback e quindi preferisco mettere a disposizione le mie conoscenze e la mia esperienza da rapper, educatore, fonico e ingegnere del suono a disposizione di persone più giovani che si trovano a doversi confrontare con la mancanza di budget. Probabilmente i laboratori del circuito Keep it real dopo l’estate faranno tappa anche nella mia Cosenza, dove torno almeno una volta al mese: sono consapevole che il mio destino non è fuori dalla città che rappresento nel rap e nella vita. È da qui che è partito tutto, a più quarant’anni, col senno di poi, posso dire che mi sento fortunato a essere nato e cresciuto a Cosenza, con le persone grazie alle quali ho avuto la fortuna di formarmi: i miei mentori e punti di riferimento. Oggi, guardando a ritroso, non potrei immaginare la mia crescita e la mia adolescenza altrove. So che chi vive a Cosenza potrebbe prendermi per pazzo ma è così: solo quando viene a mancarti una cosa ne percepisci il valore, magari in amore non vale sempre ma con la città in cui sei cresciuto sì».

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