REGGIO CALABRIA Una «gestione comunitaria» degli affari criminali, attraverso «un costante dialogo solidaristico ed una pianificata condivisione del progetto ndranghetistico da parte delle diverse articolazioni reggine». I rapporti tra le varie articolazioni di ‘ndrangheta a Reggio Calabria vengono analizzati dettagliatamente in una memoria di oltre 900 pagine depositata dalla Procura generale presso la Corte d’appello di Reggio Calabria nell’ambito del processo “Epicentro”. «Già il processo di primo grado era stato caratterizzato da una torrenziale allegazione di questioni ed eccezioni difensive, provenienti dai difensori di alcuni imputati, sovente rivelatesi non solo palesemente infondate, ma del tutto disancorate dalle effettive emergenze giuridiche e fattuali del procedimento e motivate sulla base di dati macroscopicamente erronei», viene spiegato nel documento firmato dal procuratore generale Gerardo Dominijanni, dal procuratore aggiunto Walter Ignazitto e dai sostituti Giovanni Calamita e Francesco Tedesco. «Nella sentenza impugnata – spiega ancora come premessa la Procura – dette eccezioni sono state puntualmente disattese, con motivazioni analitiche e convincenti. Appare tuttavia opportuno approfondire anche in questa sede alcune delle tematiche in questione, al fine di confutare le deduzioni difensive ed evidenziarne la patente infondatezza».
La struttura associativa, frutto della federazione tra ‘ndrine, è provata, – scrive la Procura -, «da una serie di inequivocabili elementi dimostrativi da ultimo acquisiti nell’ambito delle indagini confluite nel presente procedimento». Procedimento che «ha definitivamente confermato – nell’ottica dell’ormai riconosciuta vocazione unitaria della ‘ndrangheta – l’esistenza di una federazione tra le storiche famiglie mafiose reggine, operanti in stringente connessione operativa tra loro e, comunque, tutte subordinate al predominio catalizzante del gruppo di Archi, facente capo da ultimo al boss Carmine De Stefano». I De Stefano, i Tegano, i Condello e i Libri, le “quattro famiglie” tra le quali avviene la spartizione dei proventi delle estorsioni imposte a commercianti e imprenditori del centro storico di Reggio Calabria. Diversi i punti analizzati nel documento, che dimostrerebbero una «consolidata e comune sinergia operativa attiva»: l’organizzazione di “tavoli” tra i rappresentanti delle varie cosche; l’esistenza di confronti riservati; la comunanza di intenti tra le varie ‘ndrine; la palese dilatazione dei confini territoriali e la possibilità, per le articolazioni operanti nei quartieri limitrofi di estendere il proprio controllo territoriale nelle aree vicine. Il mutuo soccorso e la reciproca assistenza tra le varie ‘ndrine, «affinché gli imprenditori provenienti dai rispettivi territori versassero il necessario obolo di ‘ndrangheta ai referenti dei quartieri in cui, di volta in volta, andavano ad operare». La frequente organizzazione di incontri tra i capi delle diverse articolazioni, «funzionali a concordare modalità operative comuni e ad attuare vicendevoli scambi informativi per la corale pianificazione delle estorsioni». «L’estensione dell’influenza ‘ndranghetistica delle cosche di Archi sino al territorio di Villa San Giovanni, in accordo con le storiche ‘ndrine del luogo». «L’organizzazione di collette in favore di detenuti delle diverse ‘ndrine, in modo da estendere i doveri solidaristici tipici delle associazioni mafiose ben al di là della ristretta cerchia dei sodali di ciascuna cosca».
Una sorta di «reductio ad unum», finalizzata ad una «gestione comunitaria e profittevole delle varie pretese, facente capo alla famiglia De Stefano, di riconosciuta superiorità per autorevolezza criminale, prestigio e capacità di dialogo ed infiltrazione di ampi settori della società, nella persona di Carmine De Stefano», scrive la Procura reggina, che delinea la figura del boss appartenente alla storica famiglia di Archi e sottolineando la capacità di De Stefano di «aggregare intorno a sé le nuove leve provenienti anche da altre famiglie, ivi comprese quelle un tempo contrapposte nella sanguinosa guerra di ‘ndrangheta». «Ieri ragionavamo con Carmine… (…) Carmine quando è uscito… c’era parecchia confusione in giro… no?… questi dei Condello… dei ragazzi che sono… hanno trovato in lui un punto di riferimento… ma sempre nella cosa di… di vedere… di fare le cose in maniera che tutto funzioni per bene… che vada per bene… no? (…)», dice Giorgio De Stefano in una conversazione con Alfonso Molinetti spiegando come il fratello Carmine fosse diventato un «punto di riferimento» per i «ragazzi» dei Condello, in maniera da assicurare che «tutto funzioni bene». «Però bisogna un pochettino tornare indietro… perché hanno trovato un punto di riferimento e Carmine… ricambia…», risponde Molinetti. Il «ruolo sovraordinato» riconosciuto alla famiglia De Stefano è tale da determinare, ad esempio, nel capo locale di Pellaro, Filippo Barreca, il «deferente ossequio verso Carmine De Stefano e l’attribuzione allo stesso della potestà decisionale anche in merito all’estorsione ai danni di un imprenditore operante nel territorio pellarese».
«Nooo a me me lo deve dire, no… è lui! Decide lui! (…) decide Carmine ora questo qua eravamo rimasti noi … (…) Gli devi dire che per il fatto di Canale di fare lui, lui l’ha aggiustata voglio dire, non è che l’ho aggiustata io… (…) No, no, no gli devi dire, me lo dice Carmine e che gli dici, e mi metto a fare discussioni io, oppure digli no, sai, questo quell’altro…». (m.ripolo@corrierecal.it)
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