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Il caso di Antonio Cerra, il teste chiave di Petrolmafie trovato morto a Pizzo Calabro

Spotlight ripercorre la storia del finanziare trovato morto prima della testimonianza contro le ‘ndrine vibonesi. Per la procura fu suicidio

Pubblicato il: 18/05/2024 – 21:09
Il caso di Antonio Cerra, il teste chiave di Petrolmafie trovato morto a Pizzo Calabro

VIBO VALENTIA È l’11 maggio 2022. Al tribunale di Vibo Valentia è in corso l’udienza del processo Petrolmafie. Tra i teste chiave è atteso anche il finanziere Antonio Cerra, il cui contributo all’inchiesta è stato tale da meritarsi un encomio solenne. Ma in quell’aula Antonio non si presenta. «Lui non fa mai tardi» segnalano preoccupati i colleghi presenti. Passa poco tempo e arriva la tragica notizia: Antonio Cerra viene ritrovato morto a Pizzo Calabro, nella sua casa vacanza, lasciando una moglie e i suoi tre figli, tra cui una di soli due anni. Per la Procura, che ha archiviato le indagini, non ci sono dubbi: si tratta di suicidio. Ma i dubbi, invece, la famiglia li ha e si oppone all’archiviazione. Una storia tragica ripercorsa dalla rubrica di approfondimento Spotlight di Rainews. «Lui si occupava sempre di grandi inchieste. Lui amava davvero quello che faceva» ricorda la moglie Francesca Rubbettino. «Era una grandissima risorsa per me, aveva una conoscenza dettagliata e precisa. Mi sedevo alla scrivania e lui con grande pazienza mi spiegava tutto» aggiunge a Rainews Andrea Mancuso, il pm che ha seguito il processo Petrolmafie.

Il processo

L’inchiesta parte da un troncone di Rinascita Scott. Sotto la lente degli investigatori gli interessi della criminalità organizzata vibonese nel settore petrolifero e nella gestione del gasolio. Un’indagine in cui, spiega il procuratore Andrea Mancuso a Rainews, è stato fondamentale il supporto della Guardia di Finanza. «Viene acquistato dal Nord un prodotto che non è carburante, ma olio lubrificante. Questo arriva a Vibo, dove viene miscelato al carburante e venduto come tale» spiega Mancuso. Ma anche affari tramite l’importazione di gasolio destinato all’uso agricolo, poi rivenduto nei distributori. Un totale di 6 milioni di litri di gasolio frodati in soli cinque anni nel Vibonese. Ma il progetto sarebbe stato ancora più ambizioso: costruire una boa galleggiante a Vibo Marina per acquistare petrolio e venderlo in tutto il meridione. «Non avevano bisogno del porto di Gioia Tauro, perché non volevano parlare con le ‘ndrine locali» aggiunge Nicola Gratteri nello spiegare l’inchiesta. Al processo 80 imputati e 53 colpevoli in primo grado.

Il contributo di Antonio Cerra

È in questo contesto che opera e lavora Antonio Cerra, che sarebbe diventato teste importante per il processo. «Ricordo bene la testimonianza nell’esame. Fu perfetta, andò come un treno. Diceva esattamente quello che bisognava dire e come dirlo. Riusciva a focalizzare perfettamente gli aspetti della sua attività. Concluso l’esame gli faccio i complimenti e fissiamo l’appuntamento per settimana dopo» racconta il pm Andrea Mancuso. All’udienza Antonio Cerra, però, non si presenta. «Prima un mormorio, una possibilità, poi arriva la certezza che il luogotenente si era tolto la vita». Alla tragica notizia seguono le indagini che portano all’archiviazione per suicidio. «Ovviamente il primo pensiero è che il fatto accade nel momento in cui deve venire ascoltato come controesame, diventa quasi inevitabile collegare i due eventi. Però devo dire anche da questo punto di vista ci sembrano un po’ carenti» spiega il legale della famiglia Nunzio Raimondi. Parole condivise anche dalla moglie Federica: «Questa pista è stata velocemente messa da parte. Non è sembrato ci fossero dati sufficienti a suffragare un collegamento, però resta anche qui il punto interrogativo».

Il trasferimento e i problemi a lavoro

Dopo l’inchiesta, Antonio Cerra aveva richiesto il trasferimento da Catanzaro a Lamezia Terme. Alla base della decisione la ricerca di un ambiente più tranquillo per avere più tempo da dedicare alla famiglia, ma anche per alcuni presunti problemi lavorativi. Ma a Lamezia ha ancora più difficoltà ad ambientarsi, come dimostrano le continue lamentele con la moglie e con gli stessi colleghi di Catanzaro. «Mi sento in gabbia senza vie di fuga» scrive in alcuni messaggi. Una situazione che, spiega la Procura che ha archiviato il caso, avrebbe portato al tragico gesto dell’11 maggio. «Mio marito era stanco e preoccupato per la situazione lavorativa, ma aveva già fatto una serie di passi per risolverla» precisa la moglie. Tra questi anche l’ipotesi di chiedere il trasferimento per la Lombardia. «Non era una persona rassegnata».

I dubbi della famiglia

Tra piste inesplorate e il segreto d’ufficio posto dalla Procura su tutti i supporti informatici usati da Antonio Cerra, i dubbi per la famiglia restano tanti. Ma anche la mancanza degli esiti dello stub sui residui di polvere da sparo. «Come si fa a chiedere l’archiviazione se non si ha la certezza della polvere da sparo sulla mano che si presume abbia sparato» afferma il legale Raimondi. E ancora le telecamere di fronte la casa a Pizzo Calabro: soltanto due sarebbero state visionate, ma senza il deposito integrale dei video. «Era una persona attaccatissima alla famiglia, innamorata a questa bimba. Si stava laureando dando un esame al mese pur lavorando in un contesto difficile. Aveva fatto una richiesta di tesi e stavamo comprando una seconda casa a mare» ricorda la moglie. A marzo arriva l’encomio solenne per il suo lavoro. Poi la tragica morte dell’11 maggio e i tanti dubbi della famiglia che lo scorso gennaio ha chiesto la riapertura delle indagini. (redazione@corrierecal.it)

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