VIBO VALENTIA Per lui l’accusa aveva chiesto 26 anni di carcere, ma i giudici lo hanno condannato a 28, due in più di quanto richiesti. Si tratta di Vincenzo Barba alias “U musichieri”, ritenuto al vertice del locale di Vibo e in particolare della ‘ndrina Lo Bianco-Barba, come messo nero su bianco dal collegio giudicante composto da Brigida Cavasino, Germana Radice e Claudia Caputo. Nelle motivazioni della sentenza di Rinascita Scott, rese pubbliche ieri, si legge che l’esame di tutti gli elementi emersi «non lascia residuare alcun dubbio sulla condotta di Vincenzo Barba». Come dimostrerebbero i numerosi riscontri e analogie tra i racconti dei collaboratori di giustizia, oltre alle conversazioni intercettate e alle prove raccolte dagli investigatori. Di lui parlano ben cinque collaboratori: Andrea Mantella, Bartolomeo Arena, Raffaele Moscato, Michele Camillò e Antonio Gaetano Cannatà. In particolare, è dalle dichiarazioni di Mantella e Arena che emergono maggiori dettagli sul suo «ruolo apicale nella struttura della consorteria».
«Enzo Barba, alias “il Musichiere”, un’altra persona verticistica che è la corona dei Barba». Lo presenta così Andrea Mantella su domanda dei pm durante le sue dichiarazioni nell’aula di tribunale. «Un capo di spessore non indifferente, insomma un tipo vendicativo, pericolosissimo e quindi era all’interno del Clan Barba-Lo Bianco» riferisce di fronte al giudice il collaboratore di giustizia, riconoscendo di fatto il suo ruolo di vertice nella ‘ndrina vibonese. È proprio Mantella a spiegare come la sua carriera criminale nasca «nelle mani» di Vincenzo Barba, il quale gli avrebbe «imposto a commettere degli omicidi» oltre a «danneggiamenti ed estorsioni». Tra questi, accusa Mantella, anche l’omicidio di Filippo Gangitano, vittima di lupara bianca e ucciso «perché aveva la colpa di essere un gay». Sul caso di Gangitano, tuttavia, il troncone di Rinascita dedicato agli omicidi ha assolto lo stesso Barba. Le ricostruzioni di Mantella, spiegano i giudici, si fermano al 2011, anno in cui viene arrestato e poco prima dell’inizio del suo percorso da collaboratore.
Chi può fornire più dettagli dal 2011 in poi è Bartolomeo Arena, anche lui collaboratore di giustizia e vicino alla cosca dei Pardea Ranisi. In particolare, dal 2013, anno in cui, scrivono i giudici, «avveniva la creazione di un “Buon ordine” e in particolare la “fusione” tra i gruppi Lo Bianco-Barba e Pardea-Ranisi». La riunione, a cui si sarebbero rifiutati di partecipare i Cassarola, si è svolta nell’autunno del 2013 in una «zona sconsacrata» del cimitero di Vibo. In quel contesto Vincenzo Barba avrebbe ricevuto la nomina di «Capo società». Un “buon ordine” che avrebbe fatto felice anche Luigi Mancuso, come spiega Arena. «Per come ci disse Vincenzo Barba, Luigi Mancuso era molto contento dì questa cosa, anche perché vecchie famiglie che non andavano d’accordo da tanto tempo sì erano riunite, e lui disse che era molto contento». Ma la “fusione” si scioglie nuovamente nel 2016, con la scelta dei Pardea Ranisi di distaccarsi dai Lo Bianco-Barba. «Arena – scrivono i giudici – ha, tuttavia, specificato che, stimando molto Barba Vincenzo, si premurava di spiegare a quest’ultimo le ragioni della decisione. Il Barba rispondeva “allora regolatevi dì conseguenza e fate come volete”».
Tutte dichiarazioni che secondo i giudici «oltre a convergere tra loro ponendosi anche in una linea di continuità cronologica, sono riscontrate dagli esiti delle più recenti indagini». Riscontri come, ad esempio, la “mangiata” a cui avrebbero partecipato i principali vertici delle ‘ndrine vibonesi, tra cui ovviamente lo stesso Barba il quale «interviene nella sua qualità di membro apicale del sodalizio». Ma anche parole e metodi con cui i conviviali si sarebbero rivolti a lui confermano, secondo i giudici, «ancora una volta il ruolo di massimo rilievo ricoperto dall’imputato». Barba era già stato condannato in via definitiva con il processo “Nuova Alba”, con il quale gli era stata riconosciuta la partecipazione all’associazione mafiosa. Ma il ruolo del “Musichiere”, spiega il collegio, sarebbe continuato nel tempo «anche oltre il periodo coperto dal giudicato», ovvero dal 2007 in poi. Dichiarazioni e un quadro probatorio “esaustivo” che hanno convinto i giudici a condannare Vincenzo Barba a 28 anni. (Ma.Ru.)
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