COSENZA «Secondo me Sergio Cosmai ha avuto giustizia in parte. Io sono molto grata a coloro che hanno risolto questo caso che era destinato a rimanere senza responsabili, ma abbiamo dovuto aspettare 28 anni prima di arrivare a una giustizia tardiva, quindi io credo che il dottor Cosmai avrebbe avuto giustizia se la legge avesse fatto il suo corso dall’inizio». Sono le parole della professoressa Tiziana Palazzo, vedova di Sergio Cosmai, il direttore del carcere di Cosenza assassinato il 12 marzo del 1985 dalla ‘ndrangheta cosentina.
Una storia drammatica la sua, raccontata ieri sera nel programma di Raiuno “Cose Nostre” la cui puntata è stata titolata “Per un’ora d’aria”. Una vicenda dimenticata per oltre due decenni e che il Corriere della Calabria ha raccontato più volte in passato. Nel marzo scorso l’intervista a uno dei più stretti collaboratori di Cosmai in quegli anni, Domenico Mammolenti che proprio ieri sera è stato uno dei protagonisti del programma Rai con la sua testimonianza. Insieme a Mammolenti la ricostruzione della vicenda giudiziaria dell’omicidio del giovane direttore del carcere cosentino è stata affidata al giornalista esperto di ‘ndrangheta Arcangelo Badolati e all’ex procuratore capo di Cosenza Mario Spagnuolo. «Lo Stato in questa vicenda ha due colpe – ha detto proprio quest’ultimo –, la prima colpa è che tutti i direttori di carcere dovevano essere come Sergio Cosmai e allora non avremmo avuto nessun omicidio, la seconda colpa è quella di avere aspettato vent’anni prima di fare giustizia».
Sergio Cosmai il giorno della sua tragica morte aveva 36 anni. Nato a Bisceglie, era sposato, padre di una bambina di tre anni e di un figlio che sarebbe nato poco dopo la sua morte. Era un direttore atipico, rigido e al tempo stesso sensibile, amante della cultura, tendenzialmente di sinistra. Arrivò a dirigere il carcere di Cosenza nel 1982, chiamato per far rispettare le regole in un ambiente complicato in cui la malavita dominava da tempo e iniziava a diventare sempre più potente e feroce. Una struttura in cui i privilegi, gli accordi sottobanco e le omertà diffuse erano difficili da scardinare. Nel giugno del 1983, durante la protesta dei detenuti per ottenere un’ora d’aria supplementare, rifiutò la proposta del boss Franco Perna di andarlo ad incontrare. Quella decisione decretò la sua condanna a morte.
«Con Perna ebbe un duro scontro davanti a tutti i detenuti. Cosmai disse: “Se vuole parlarmi – ha ricorda Mammolenti nel marzo scorso al Corriere della Calabria – è lui che deve venire da me e non il contrario. Io rappresento lo Stato». Venne ucciso quando a bordo della sua 500 di colore giallo stava andando a prendere la figlia Rossella nella scuola materna “De Vincenti”. Soltanto nel 2008, nel processo in Corte d’Appello a Cosenza, il mandante dell’omicidio Franco Perna sarà condannato all’ergastolo. (fra.vel.)
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