CATANZARO Il sospetto dei magistrati antimafia è che ci sia un “accorduni” tra i clan di ‘ndrangheta, un patto di ferro che mette insieme le tante anime criminali egemoni nei diversi territori regionali per dar vita ad un unico progetto sinergico in grado di accumulare e destinare i guadagni frutto di illeciti profitti, in un fondo comune. E poi l’unione, non mina la credibilità e l’autonomia dei sodalizi nella realtà criminale: ognuno è libero di condurre e gestire gli affari, lo spaccio, e tutti i business non consentiti.
E’ questa, in estrema sintesi, l’ipotesi d’accusa mossa dalla Dda di Catanzaro nei confronti della ‘ndrangheta vibonese e di quella cosentina. Una ricostruzione, quella dei magistrati della Distrettuale Catanzarese cristallizzata nelle pagine di numerose inchieste portate a termine nel corso degli ultimi anni. Non solo fiuto investigativo e indizi probanti, per gli investigatori anche le parole riferite dai collaboratori di giustizia tratteggiano i contorni di un mosaico che renderebbe chiara l’esistenza di un unico sindacato di ‘ndrangheta.
Le motivazioni della sentenza emessa al termine del maxi processo di primo grado, scaturito dall’inchiesta “Rinascita-Scott“, certificano l’esistenza «della cosiddetta unitarietà della ndrangheta». Un sistema «fatto di regole comuni e di una certa necessità di collegamento tra le varie articolazioni tra loro e tra tutte queste ed il cosiddetto crimine, soprattutto per risolvere controversie di rilievo», mettono nero su bianco i giudici. Interessante e rilevante per l’accusa, il passaggio relativo al file rouge che legherebbe i clan. «Non si tratta mai di una dipendenza operativo-gerarchica delle varie locali dalla struttura madre, ovvero “il Crimine di Polsi”», ma «mantengono una sostanziale autonomia operativa, tipica della struttura criminale calabrese, (…) una dipendenza formale, finalizzata a garantire, da un lato, l’esistenza di organi di raccordo ultra-provinciali, necessari al perseguimento degli interessi degli associati, dall’altro ad impedire la proliferazione indiscriminata e non ortodossa di tipologie di cariche, doti/ riti alternativi, che porrebbero un grave nocumento alla sicurezza delle informazioni che è alla base dell’interazione tra le diverse componenti dell’associazione». Secondo i giudici, dunque, la presenza di una struttura criminale unitaria e associativo fatto di regole comuni e gerarchie «non è in contrasto con le possibili guerre interne alle singole articolazioni, come non risulta in contrasto con l’unitarietà della ‘ndrangheta».
Come accade a Vibo, anche gli storici gruppi criminali si sarebbero consorziati al punto di istituire una “bacinella comune” alimentata dal fiume di danari ricavati dalle attività illecite. Una riorganizzazione, quella dei sodalizi gravitanti nella galassia criminale bruzia, decisa dopo il “vuoto di potere” seguito al processo “Nuova Famiglia” che, con gli arresti conclusi nel novembre 2014, «ridimensionava fortemente il gruppo “Rango-Zingari”, fino a quel momento egemone in virtù dell’alleanza con il gruppo degli “Italiani” collegati al gruppo Ruà-Lanzino-Patitucci». Chi indaga prende consapevolezza della necessità di intervenire per interrompere l’equilibrio criminale dei clan e liberare il territorio dallo strapotere delle cosche. Una azione che prende forma con l’operazione nome in codice “Testa del Serpente“, dalla quale scaturisce il processo conclusosi con la sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Cosenza, il 18 luglio 2023. Molti identificano, dal punto di vista giudiziario, l’inchiesta “Testa del Serpente” come una costola della maxi inchiesta “Reset”. Che il primo settembre 2022 assesta un duro colpo alla ‘ndrangheta cosentina ed anche a presunti colletti bianchi e politici. I due tronconi del processo, quello celebrato con rito ordinario e quello con rito alternativo, sono lontani dalla sentenza. Il secondo potrebbe chiudersi entro il 2024, il primo – invece – sta entrando nel vivo con l’escussione di una serie di pentiti chiamati a ricostruire contesto criminale e a rendere edotto il Collegio giudicante dei dettagli legati al presunto patto federativo. Sul punto, è opportuno ricordare gli interventi di chi ha vissuto un passato criminale militando in uno o più fazioni dei clan cosentini. Come Francesco Patitucci, ex capo del clan degli “Italiani“. Che nel corso di una udienza del processo scaturito dall’inchiesta “Bianco e Nero“, ha reso dichiarazioni spontanee sconfessando la tesi della presenza della “Confederazione” di ‘ndrangheta cosentina. «Non ne ho mai sentito parlare», ha sentenziato l’ex vertice della cosca degli “Italiani”. Di diverso avviso, invece, il pentito Daniele Lamanna, secondo il quale «la Confederazione è stata attiva fino al 2014». Non solo i collaboratori. Di Confederazione ha avuto modo di parlare anche il dirigente della Polizia di Stato Fabio Catalano. «Abbiamo le prime tracce della nascita della Confederazione, della bacinella comune e della legittimazione degli Zingari all’epoca guidati da Franco Bevilacqua, detto “Franchino i Mafalda”». E il presunto “Sistema Cosenza” messo in piedi dai clan, è al centro della recentissima inchiesta denominata “Recovery“. Anche in questa indagine, la Dda ipotizza un collegamento con una precedente inchiesta e con la determinazione dei gruppi criminali a lavorare sinergicamente. E’ il procuratore facente funzione della Distrettuale di Catanzaro, Vincenzo Capomolla a sottolinearlo nel corso della conferenza stampa. «La misura cautelare ha riguardato soggetti non interessatati dalla maxi inchiesta “Reset” di cui comunque è appendice, confermando di fatto una sorta di confederazione di ‘ndrangheta nel quadro già descritto proprio con Reset».
(f.benincasa@corrierecal.it)
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