VIBO VALENTIA Una donna non “mera” esecutrice degli ordini «del temibile compagno Peppone», ma figura «capace di imporre la sua linea criminale» finanche al boss di Zungri. È il ritratto, reso dal collegio giudicante di Rinascita Scott nelle motivazioni della sentenza, su Filippina Carà, classe 1989, moglie di Peppone Accorinti e condannata nel processo contro le ‘ndrine vibonesi a 17 anni di carcere. Un progetto criminale mirato a «consolidare ed espandere il potere da esercitare sul territorio» a cui la donna avrebbe partecipato, secondo i giudici, in modo consapevole. Non solo divenendo vera e propria messaggera dal carcere del boss per i suoi sodali, ma anche dando consigli e sostegno al clan, interessandosi pure all’acquisto dei terreni.
La figura di Filippina Carà’ racconta un universo sottovalutato all’interno delle ‘ndrine: quello del ruolo della donna. Vittime delle mentalità mafiosa, violenta e patriarcale dei mariti, ma anche, in alcuni casi, “complici” e strumento dell’attività criminale. Nel caso della moglie di Peppone, sarebbe addirittura «promotrice di autonome iniziative criminali», come ad esempio l’intestazione fittizia di un ristorante. Un caso in cui la Carà addirittura avrebbe «redarguito» il marito Peppone invitandolo a revisionare i conti, ma anche proponendo l’idea di «investire ampliando l’attività» tramite l’acquisto del vicino locale. A ciò si aggiunge la gestione, insieme agli altri sodali, «del traffico illecito di bestiame», le cosiddette vacche sacre di Zungri, una «fonte di guadagni fiorenti per la compagine criminale».
Elemento chiave che ha indotto i giudici a condannare la moglie di Peppone è «la forte consapevolezza della Carà di appartenere alla Cosca dominante del territorio», sfruttata anche per «ricevere banali vantaggi». Ruolo che sarebbe ulteriormente accresciuto nei periodi di detenzione o comunque di “irreperibilità” del boss Peppone, quando a gestire i rapporti con i sodali sarebbe stata proprio Filippina Carà. La donna avrebbe utilizzato, inoltre, un linguaggio criptico con riferimento alle condizioni climatiche per scongiurare eventuali controlli delle forze dell’ordine. Per i giudici «non si comprende che bisogno avesse l’imputata di chiedere una simile informazione (se stesse piovendo, ndr) quando affacciandosi alla finestra avrebbe potuto acquisirla ben più agevolmente». Un linguaggio criptico confermato anche dal suo utilizzo in un’altra conversazione tra due sodali, i quali chiedendo se stesse nevicando, secondo i giudici, non potevano che fare riferimento ad un pattugliamento dei Carabinieri avvenuto da poco dal momento che «non si erano registrate precipitazioni nevose nei giorni immediatamente precedenti».
Linguaggio criptico e messaggi che sarebbero stati veicolati anche all’interno del carcere, durante i colloqui tra Filippina Carà e il marito Peppone Accorinti. In questi contesti diventava «indispensabile» il ruolo della Carà all’interno del sodalizio, dal momento che di fatto rappresentava la possibilità di interagire con il capoclan. Vere e proprie “imbasciate” che, secondo l’accusa, sarebbero state portate in carcere o fuori tramite linguaggio criptico e bigliettini, anche se questi non sono mai stati effettivamente ritrovati. Tuttavia, specificano i giudici, «la circostanza che il bigliettino non sia stato trovato non esclude che la Carà abbia comunque recepito il messaggio da parte dell’Accorinti». In mezzo anche un furto di auto subito dalla stessa moglie di Peppone Accorinti, con il veicolo prontamente recuperato dai sodali del clan. Un insieme di indizi e dichiarazioni che, secondo i giudici, appaiono «tutti dati convergenti del ruolo dinamico e funzionale della Carà all’interno della consorteria di Zungri». (Ma.Ru.)
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