Quello in corso è stato l’anno dello scrittore Saverio Strati a cent’anni della sua nascita e a dieci dalla sua morte. Il recente Salone del libro di Torino gli ha tributato il giusto riconoscimento, attraverso gli stand della Regione Calabria e della casa editrice Rubbettino, che ha pubblicato i suoi inediti. Il sociologo Claudio Cavaliere coglie l’occasione per tratteggiare la cifra dello scrittore di Sant’Agata del Bianco nella Locride con una puntuale recensione. «Uno dei volumi presentati a Torino è stato quello di Giuseppe Tripodi dal titolo “Saverio Strati. Scrittore di romanzi” (Città del Sole edizioni, 2024). Tripodi – calabrese di Condofuri ma da tempo residente a Tivoli – romanziere, saggista e glottologo, aveva già rivolto la sua attenzione allo scrittore in un articolo del 2010 sulla prestigiosa rivista letteraria Belfagor, successivamente ripubblicato in “Ritratti in piedi nel Novecento calabrese” (Città del Sole, 2017). Il volume è organizzato in nove parti e affronta tutta la produzione letteraria dello scrittore di Sant’Agata che fin dalla introduzione Tripodi seziona in maniera analitica. Da un lato la produzione del ciclo che definisce Terrarossa (dal nome del paese del romanzo La teda) al quale appartengono le opere che Tripodi definisce “‘ndranghetologiche” e le cui propaggini sono disseminate anche in altre parti della sua produzione. Questo ciclo contiene e propone, accanto alla predominate materia ‘ndranghetologica, diversi dei temi narrativi dello Strati più maturo: il viaggio, l’emigrazione, i conflitti intrafamiliari; vedi “La Marchesina”, “La Teda”, “Mani vuote”, “Il selvaggio di Santa Venere”, “Il diavolaro”. La seconda parte riassume quelle che Tripodi giudica le opere migliori di Strati narratore, “Tibi e Tascia”, “Il nodo”, “Gente in viaggio”, “Noi lazzaroni”.” La terza parte – non a caso titolato “Lo scrittore nel suo labirinto” – si occupa dei due romanzi che, assieme a “Il nodo”, rappresentano in modo diretto momenti autobiografici dello scrittore: “Il codardo” ed “È il nostro turno”. Quarta, quinta e sesta parte sono dedicati a quello che Tripodi giudica invece «Il ramo discendente della parabola e la scrittura alienata» dello scrittore, romanzi secondo l’autore «decisamente involuti sul piano della tessitura testuale e del lessico» che da “Il visionario” e “Il ciabattino” arrivano al romanzo postumo “Tutta una vita”. Le ultime tre parti (VII, VIII e IX) si occupano dell’intrecciarsi di lingua e dialetto nelle opere di Strati lì dove Tripodi, sorretto dalle sue competenze glottologiche, affronta il nodo del rapporto tra lingua e dialetto in Strati individuando nello scrittore un chiaro pregiudizio antidialettale che ha nuociuto alle sue opere, come segnalato anche da due grandi critici come Walter Pedullà e Geno Pampaloni. Insomma, un saggio che ha il merito di una puntuale ricognizione delle opere di Strati; un riaccendere le luci sulla sua produzione letteraria, un debito che comincia ad essere estinto senza andare in prescrizione. In un tempo in cui esiste solo la parola volatile, l’arguzia che vale un attimo, l’aneddoto di un giorno, il libro che domani nessuno ricorderà, il riconoscimento di Tripodi a Strati conferma che quelle parole, quei romanzi meritano di essere ancora letti e studiati perché qualcosa ancora ci raccontano».
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