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‘Ndrangheta in Lombardia, le truffe dell’imprenditore «amico dei Mancuso e dei Tripodi»

I giudici lo hanno condannato a 11 anni ma, in passato, erano già emersi legami con la ‘ndrina vibonese e, in particolare, con “Turi” Mancuso

Pubblicato il: 08/06/2024 – 18:01
di Giorgio Curcio
‘Ndrangheta in Lombardia, le truffe dell’imprenditore «amico dei Mancuso e dei Tripodi»

MILANO Quello di Legnano-Lonate Pozzolo è uno dei locali di ‘ndrangheta tra i più influenti e potenti del territorio lombardo, nonché tra quelle maggiormente rappresentative ed autorevoli. Centinaia di pagine di inchieste, verbali di udienze e soprattutto condanne ormai definitive ne hanno restituito i contorni geografici e l’organigramma. È in questo contesto che si inserisce il profilo di Enrico Barone, il classe ’69 originario di Vibo Valentia, condannato a 11 anni dai giudici del Tribunale di Busto Arsizio. I legami di Barone con le ‘ndrine calabresi, scriveva il gip nell’ordinanza risalente al 2023, «sono solidi e risalenti negli anni», come era emerso già nell’inchiesta che lo ha definito quale «prestanome di Salvatore Mancuso (cl. ’67)».

La “locale lombarda”

Le vecchie sentenze hanno messo a capo del locale di ‘ndrangheta Vincenzo Rispoli, ma hanno anche permesso di ricostruire gli eventi successivi alla morte di Carmelo “Nunzio” Novella, quando alcuni hanno cominciavano a porsi il problema della legittimazione dei “locali” di ‘ndrangheta create da quest’ultimo create, non veniva ricompreso nel novero di quelli in discussione il locale di Legnano «in ragione della sua ormai consolidata esistenza ed operatività», scrivono gli inquirenti nell’inchiesta “Infinito”. Dalla stessa inchiesta sarebbe emerso, inoltre, come lo stesso locale di Legnano fosse espressione della cosca Farao-Marincola, egemone a Ciro Marina, località, quest’ultima, di cui sono originari molti esponenti della “locale lombarda”.

I Tripodi (e i Mancuso)

Altra cosca presente sul territorio è quella dei Tripodi di Vibo Valentia, «operante con le modalità intimidatrici, foriere di una condizione di assoggettamento e di omertà, tipiche della consorteria di stampo mafioso, attiva a Porto Salvo, provincia di Vibo Valentia, direttamente collegato alle maggiori famiglie dell’ndrangheta vibonese come i Mancuso», scriveva la Corte d’appello di Catanzaro nelle sentenza divenuta, poi, definitiva nel 2017. Nella stessa sentenza, inoltre, veniva riconosciuto il ruolo di vertice di Nicola Tripodi che, secondo quanto affermato da collaboratori di giustizia tra cui Francesco Oliverio, «aveva rappresentato la famiglia Tripodi nel corso di tre riunioni mafiose svoltisi nel milanese negli anni 2008/2010 alle quali erano presenti esponenti delle famiglie dei Mancuso e dei Tripodi».

Il colloquio in carcere

A proposito di Barone (cl. ’69) e dei rapporti con Mancuso, nell’ordinanza il gip aveva sottolineato come, nel 2012, fu il padrino di battesimo del figlio di Salvatore Mancuso e, il 29 maggio del 2020, verrà contattato, per video chiamata, da un altro figlio di Salvatore Mancuso, Giuseppe, che in quel momento stava godendo di un colloquio (sempre in remoto) con il padre, detenuto nel carcere di Oristano e che, in buona sostanza, «”convoca” Barone», scriveva il gip, «partecipando anche al pagamento delle spese legali». «(…) tra poco devo parlare con uno che è in carcere, con la videochiamata (…) questo chiama il figlio, dice che mi vuole vedere». L’occasione, insomma, per poter vedere e salutare il boss in quel momento rinchiuso in carcere ad Oristano.   

«Prebende e regalie»

Dalle indagini della Procura, inoltre, sarebbe emerso inoltre come lo stesso Barone avesse distribuito una serie di “prebende” di varia natura «a soggetti il cui legame con appartenenti al locale di Legnano-Lonate Pozzolo, ovvero alla cosca Tripodi di Vibo (a loro volta legati ai Mancuso) è stato più volte giudiziariamente accertato, a cominciare dal “cestino natalizio” donato alla moglie del presunto boss Vincenzo Rispoli, in quel momento detenuto. A carico di Barone, inoltre, gli inquirenti hanno ricostruito i legami con la cosca Mancuso di Limbadi, a cominciare – come già sottolineato – da Salvatore Mancuso, figlio del defunto “Don Ciccio” e nipote del “Supremo” Luigi Mancuso. Con la sentenza diventata irrevocabile nel 2016, infatti, Enrico Barone era già stato condannato per il reato di usura, proprio insieme a Mancuso, con la successiva confisca di una serie di unità immobiliari e appartamenti.

Le rassicurazioni al figlio di Turi

È invece il giugno de 2020 quando ancora Barone incontra, nel proprio ufficio, Giuseppe Mancuso. Nel corso del colloquio intercettato dagli inquirenti, Barone illustra i propri timori che qualche sodale possa aver speso la sua vicinanza ed operatività a favore del Mancuso per evitare problemi con altri pregiudicati. «(…) che i miei non sono reati brutti, non sono reati come omicidio, mafia e situazioni» spiega Barone al figlio di Turi Mancuso «sono tutti reati fiscali, truffe (…) da parte mia vai tranquillo che io non l’ho mai tirato in ballo su quella storia (…) non l’ho mai fatto io… Io sapevo». Per gli inquirenti questo è un ambientale molto significativa. Enrico Barone, infatti, esclude di aver mai utilizzato il nome dei Mancuso per risolvere “discussioni” con altre persone legate agli illeciti fiscali da lui commessi. (g.curcio@corrierecal.it)

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