«Giacomo Matteotti è una figura poliedrica e interessante per le tante sfaccettature della sua personalità: politica, istituzionale, intellettuale e umana. Emblematica, di come si deve condurre la battaglia politica per opporsi a un potere autocratico e per difendere libertà, democrazia e giustizia sociale». Lo scrive l’ex sindaco di Rende Sandro Principe. «Scrivere Matteotti, significa, infatti, lotta intransigente al fascismo, alla dittatura mussoliniana, e amore incalcolabile, eterno, per il socialismo. “Voi uccidete me, ma l’idea che è in me non la ucciderete mai”. Così disse il 10 giugno 1924 ai suoi assassini, che lo avevano rapito nei pressi di casa sua sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, prima di esalare l’ultimo respiro. I suoi sequestratori eseguivano un ordine di Marinelli e Rossi, principali collaboratori del Duce, interpreti del pensiero di Mussolini che, del resto, il successivo 3 gennaio 1925, nell’aula di Montecitorio, si assunse “la responsabilità politica, morale e storica di quanto accaduto”».
«Per manifestare durante il ventennio contro il regime, si scriveva Matteotti sui muri dei Paesi e delle Città e, in segreto, si conservavano le sue fotografie. Sono passati cento anni dall’assassinio di Matteotti. E, per 100 anni, il suo volto e il suo nome, ricordato con la intitolazione di strade e piazze in tutta Italia e nel mondo, riportano alla memoria la sua barbara uccisione, il suo martirio e la lotta intransigente al fascismo. Oggi che ciò, è unanimemente riconosciuto (perfino la Meloni ha osservato che Matteotti “è stato ucciso da squadracce fasciste”), è arrivato il tempo, almeno per noi che lo abbiamo sempre amato, di ricordare gli altri aspetti della sua personalità. Innanzitutto, l’uomo. Matteotti è stato un personaggio tragico, figlio di un commerciante ricco, proprietario di poderi estesi molti ettari nel Polesine, Giacomo, insieme ai suoi fratelli, si innamorò dei valori del socialismo umanitario e riformista, che si batteva per il riconoscimento dei diritti civili e sociali dei più deboli, di quanti sono rimasti indietro, cercando di attuare quei principi con il lavoro di ogni giorno, ponendo in essere efficaci azioni per ottenere risultati concreti, senza aspettare “il Sol dell’Avvenire”. Le sue idee portarono Matteotti a organizzare i braccianti del Polesine, disoccupati sei mesi all’anno a seguito della prima meccanizzazione in agricoltura, in cooperative e leghe e a candidarsi in più comuni ed alla Provincia di Rovigo, dove fu eletto due volte, per far si che l’opera degli Enti locali contribuisse a migliorare le condizioni di vita della povera gente».
«Fu, infatti, contemporaneamente, Sindaco del Comune di Villamarzana e consigliere comunale di più realtà locali del Polesine, contemporaneità ammessa dalle leggi in materia, che consentivano di candidarsi nei Comuni ove si pagavano le tasse. La guida delle masse contadine e operaie, da parte di esponenti della borghesia, era esperienza ricorrente nei primi anni di storia del socialismo riformista Italiano. Ma si trattava quasi sempre di esponenti della borghesia delle professioni, avvocati, medici, tecnici. Nel caso di Matteotti, invece, egli era un esponente della borghesia commerciale diventata terriera; pertanto, la circostanza che Giacomo si schierasse con i braccianti e non con i colleghi latifondisti del padre, lo espose all’accusa di tradimento, con seguito di battute e allusioni che lo accompagnarono per tutta la sua breve ma intensa esistenza. E’ del tutto evidente, che queste battaglie nel suo Polesine, dove si intratteneva con i braccianti che lo adoravano, gli procurarono le attenzioni delle squadre fasciste, che lo aggredirono e pestarono più volte, arrivando addirittura a sequestrarlo per più ore, imponendogli l’infamia dello stupro, azione che psicologicamente lo afflisse per sempre».
«Essendo una persona molto scrupolosa, studiava con impegno e rigore i bilanci dei Comuni e ciò lo portò ad approfondire la materia fiscale e tributaria, da vero intellettuale con la mentalità del ricercatore prestato alla politica. Per completare la sua formazione, avendo disponibilità economiche adeguate, si recò più volte in Inghilterra, in Francia, in Germania e in Austria. Ciò gli permise di imparare l’inglese, il francese, il tedesco e a pubblicare a Londra, in lingua inglese, la sua tesi di laurea sulla “Recidiva”. Nei suoi viaggi in Europa venne a contatto con esponenti di primo piano delle socialdemocrazie continentali, in Austria con Otto Banner, e del laburismo inglese; queste
frequentazioni lo rafforzarono nel suo credo riformista, che già lo possedeva per i suoi rapporti in Italia con l’ala turatiana, allora egemone nel Psi, il cui pensiero aveva avuto modo di sperimentare negli enti locali. Matteotti aveva capito che il riformismo è la vera rivoluzione, perché è capace di migliorare le condizioni di vita dei cittadini, attraverso le azioni dei sindacati, delle cooperative e delle leghe e le battaglie negli enti locali e in Parlamento. Ciò, in seguito, gli procurò giudizi offensivi e saccenti da parte di Gramsci e Togliatti, già suoi avversari quando militavano nella corrente comunista del vecchio PSI».
«E a tal proposito, ho trovato strano e inopportuno che alla Camera, il discorso commemorativo dei 100 anni dal suo assassinio, sia stato affidato a un vecchio
comunista assertore della via giudiziaria al socialismo, che non poté dire ciò che andava detto e cioè che Matteotti era avanti almeno di 40 anni rispetto ai comunisti. Con queste caratteristiche politiche ed umane, era naturale la sua incorruttibile avversione verso il fascismo, di cui aveva capito l’essenza violenta, autoritaria e antisocialista, Matteotti fu sempre intransigente con Mussolini e i suoi scherani e mai si illuse su una evoluzione moderata del fascismo, come successe a liberali, popolari e anche ad alcuni socialisti. L’intransigenza diventò parte essenziale della sua tragica personalità. A volte, gli fu anche imputata dalla amata e innamorata moglie, Velia, che spesso lamentandosi della sua assenza dalla vita familiare per la politica, attribuiva le sue vicissitudine alla sua intransigenza. Lo stesso rigore dimostrò nella sua decisa opposizione all’entrata in guerra dell’Italia, che gli costò 3 anni di confino in Sicilia, Eletto deputato nel 1919, elezioni in cui il PSI portò 156 deputati alla Camera, primo partito con il 33% dei suffragi, si dedicò nei primi anni a seguire i dossier sui bilanci dello stato e sulla legislazione degli Enti Locali, argomenti su cui intervenne più volte in Aula, dopo approfonditi studi negli uffici e nella biblioteca della Camera. Successivamente, fu rieletto nel 1921, elezioni in cui il PSI ebbe 123 deputati, a causa della scissione comunista».
«Nell’ottobre del 1922, la maggioranza massimalista del PSI al congresso di Roma, pochi giorni prima della marcia su Roma, espulse dal partito l’ala riformista turatiana, che fondò il Partito Socialista Unitario che al suo primo congresso, elesse segretario Giacomo Matteotti. Mentre la sinistra continuava a dividersi, Mussolini conquistava il Potere. In Parlamento Matteotti intervenne nel 1921/22 ripetutamente, per denunciare le azioni violente, i pestaggi, i roghi e le distruzioni di sezioni socialiste, di sedi sindacali, di leghe, di cooperative e case del popolo, operati dalle squadracce fasciste, unitamente all’omicidio di esponenti dell’opposizione. Queste denunce culminarono nel 1924 nella pubblicazione del suo libro su un anno di dominazione fascista; nel suo ultimo intervento a Montecitorio, il 30 maggio, insieme alla violenza fascista perpetrata in campagna elettorale, presentò un rapporto sui numerosi brogli avvenuti nelle elezioni del 1924, in cui il listone dei fascisti e loro alleati ottenne il 66%. il PSU, con il 5,9%, si classificò il primo partito della sinistra. L’ultimo intervento avrebbe decretato, secondo la versione più comune, la sua condanna a morte, di cui era consapevole, tant’è che ai colleghi, che si complimentavano con lui, disse: «il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparatevi il discorso funebre per me». Le ricerche storiche più approfondite avrebbero dimostrato che, in realtà, Matteotti fu ucciso perché l’11 giugno alla Camera avrebbe denunciato un grave caso di corruzione che coinvolgeva i vertici nazionali fascisti, il Popolo d’Italia e la stessa famiglia Mussolini, in relazione alla concessione di ricerche petrolifere a una multinazionale americana del settore. Ma di tutto ciò scriveremo in modo approfondito in un altro articolo. Turati scrisse nel 1925 ai socialisti esuli in Argentina: “il giorno in cui il vento dell’atlantico vi recherà la novella che sul Lungotevere Arnaldo da Brescia fu posta la prima pietra del monumento al martire nostro; quel giorno sentenziate pure che la liberazione dell’Italia è avvenuta”. Ciò puntualmente si avverò il 10 giugno 1944, con Roma appena liberata dagli americani. Dunque, Matteotti simbolo di Democrazia, Libertà e Giustizia Sociale ed Eroe del Socialismo Riformista».
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