Vi siete mai chiesti quando finirà la ‘ndrangheta? Io spesso. Ci penso e favoleggio su una Calabria senza clan e cosche, priva di Santa e gerarchie di notizie quotidiane dettate dalle operazioni Vattalappesca o Cetto La Qualunque. Sciascia scrisse che l’Italia è un paese così felice che “quando si cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che già se ne stabilita una in lingua”, per non continuare a citare la solita Linea della Palma che ormai è arrivata oltre Stoccolma. Un siciliano illustre come Giovanni Falcone disse: «La mafia è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine». Nicola Gratteri, forse perché calabrese che non pratica l’ottimismo della ragione, sostiene che la ‘ndrangheta finirà quando non ci sarà più l’uomo sulla terra. Di certo la ‘ndrangheta è cambiata strutturalmente e ne troviamo prova certificata in due libri dedicati all’argomento che contengono fatti e circostanze che, a mio avviso, non possono essere ignorati da chi si appassiona alla materia.
Anna Sergi è una criminologa calabrese di fama internazionale che ha di casa il pianeta come spetta ai giovani di ultima generazione, figlia di un celebre cronista di ‘ndrangheta che ha raccontato la mafia quando Repubblica era un quotidiano di battaglia. Arcangelo Badolati è, invece, una sorta di Wikipedia vivente dell’organizzazione criminale calabrese che racconta giorno per giorno su Gazzetta del Sud offrendo scrupolosi dettagli e mai tralasciando i contesti di riferimento nel corso dei decenni del suo giornalismo che mi permetto di qualificare militante.
Anna Sergi dopo nove volumi in larga misura scientifici, la maggior parte in lingua inglese, e innumerevoli saggi e articoli, con il suo ultimo libro “L’inferno ammobiliato. Di ‘ndrangheta, di memoria e di Calabria” (Blonk editore) offre il suo lavoro più riuscito e profondo. Scrive nella prefazione Enzo Ciconte (il primo a mio parere che ci diede strumenti negli anni Novanta per comprendere la ‘ndrangheta) che il libro di Anna sembra un romanzo, perché scritto in prima persona e a partire dalla sua stretta biografia. Quella di una ragazza della generazione X, calabrese, che ha vissuto tra Cosenza e i paesi di origine dei suoi genitori, Limbadi e Santa Cristina d’Aspromonte. Con il papà che si chiama Sergi, e la mamma Teresa, medico, che di cognome fa Papalia, e certe omonomie o antichissimi e dilatati intrecci familiari verificano uno scavo figlio di una seduta psicanalitica affidata alla pagina da cui escono verità antropologiche e sociologiche del caffè pagato al bar o del “cu appartieni” che ti dicono in paese. Anna si affida molto alla memoria. Non ricorda quanti anni ha, tra i 5 e i 7 anni, ed è nell’auto del padre Lullo, come lo chiamano i colleghi. Lo accompagna in quel suo strano lavoro che è raccontare quello che accade. “Rimani in macchina” dice il padre nel ricordo come un film di Bergman. Sergi padre dopo poco torna indietro, e chiede alla figlia la Barbie con cui sta giocando. Uno shock essere privata dalla tua bambola. A pochi metri una bambina come Anna ha perso il padre. La Barbie serve per cercare di distrarla da una scena apocalittica. È il 3 maggio del 1991, giorno della terribile mattanza di Taurianova; Lullo Sergi al cellulare enorme d’epoca alla sua redazione dice: «Sì la faida, è morto, c’è la sua testa qui, mi dicono che stavano giocando a calcio con la sua testa». Riflette la scrittrice: «La ‘ndrangheta mi ha rubato la bambola. O meglio l’ho data via io, ma solo perché dovevo farlo. L’essenza della coercizione mafiosa, a pensarci».
Fatti privati, intimamente privati, psicanalitici – insisto – si avvolgono alla Storia documentata della ricercatrice in giro per il mondo mettendo a nudo la ‘ndrangheta globalizzata.
Alcuni episodi coincidono con quelli narrati da Arcangelo Badolati nel suo “I figli traditori. I rampolli dei boss in fuga dalla ‘ndrangheta” (Luigi Pellegrini editore). Altra messa a punto di grande consapevolezza storica. L’ultima generazione sta tradendo. Allevati a comandare e a diventare mafia imprenditrice “pulita” da colletto bianco e scarpe inglesi di pregio i figli e i nipoti dei capomafia non reggono il carcere duro. La cella e il buio lontani da agi e comando negli ultimi anni hanno determinato un collettivo salto del fosso generazionale. Un tempo l’organizzazione non aveva pentiti considerato lo stretto legame familiare tra associati. Oggi non è più cosi. E Badolati, sorretto dalla conoscenza di atti giudiziari e confidenze dirette, degli articoli di don Peppino Parrello e della prosa alla Brera di Gigi Malafarina, ci declina il mondo alla rovescia di Pino Scriva il Cantacalabria, di Antonio Zagari uno dei primi pentiti del Nord, di Rino Bonaventura, di Giuseppina Pesce e del differente femminile, di Giuseppe Giampà, figlio de “Il professore”, colui che quando inizia a collaborare determina al carcere di Siano l’astensione dalle lezioni alla scuola dei detenuti decisi dai picciotti del clan per rispettare il “lutto” misto a vergogna che viveva il loro capomafia. Storie di zingari ‘ndranghetizzati, anche loro non più adusi al carcere duro. Vivono questi personaggi in mezzo quel mondo criminale che, quando ti sposi, la cosca chiede a 150 imprenditori del luogo una busta da 500 euro cadauno per pagare lo sfarzo di un matrimonio con due Ferrari che accompagnano i nubendi. La ‘ndrangheta è azzoppata. Fermata nel ricambio familiare. Questo ci racconta Badolati.
I due libri di Sergi e Badolati hanno il merito di essere scritti in un italiano con buona prosa e miglior sintassi, lontani anni di luce da quei volumotti copia e incolla da atti giudiziari che t’inducono ad essere chiusi dopo 50 pagine.
E voglio sgombrare il campo da amichettismo nei confronti di Arcangelo (cui mi onoro di non essere solo collega ma anche amico) considerato che sul Corriere della Sera sulla pagina della Cultura ha scritto Agostino Gramigna: «Il libro si legge con facilità. Il tempo di lettura scivola agilmente nel reticolo denso di dichiarazioni e confessioni rilasciate dai neo-collaboratori a ispettori e magistrati. Ma una trattazione leggera non significa rendere meno serio un tema come la mafia». E di leggerezza calviniana riferisco anche di Anna Sergi, che pur adoperando citazioni colte, come quella del sociologo Pizzorno che dà il titolo al suo libro, ci offre una sorta di lessico famigliare alla Natalia Ginzburg sporcandosi le mani con il caffè pagato dei bar, la Limbadi dell’Amaro del Capo governata dal papà come sindaco, la Madonna di Polsi pregata da lei e dall’adorata nonna, congiungendo tutto questo ai punti di vista di un seminario in inglese e il viaggio a San Luca per capire l’industria dei sequestri di persona. Ma soprattutto per capire quello che siamo diventati tutti noi calabresi con questa maledetta ‘ndrangheta che ha pesato sulle nostre vite e che vorremmo vedere scomparire per sempre. Io aspetto sulla riva del fiume per veder passare il cadavere di questo nemico. Intanto leggo buoni libri come quello di Anna Sergi e Arcangelo Badolati per meglio raccontare ai miei lettori contro chi combattiamo.
Al Festival “Trame” di Lamezia Terme il libro di Anna Sergi sarà presentato giorno 21 giugno con lo storico John Dickie; quello di Arcangelo Badolati giorno 20 con la nostra direttrice, Paola Militano.
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