«È meglio accendere una piccola candela che maledire l’oscurità», diceva Confucio. In molti l’avranno pensato, a proposito dell’approdo di Mimmo Lucano al Parlamento europeo con una valanga di voti. Il politico di Riace incarna, secondo Gioacchino Criaco, «la filoxenia che nutre da sempre la gente della Locride», ed è considerato il simbolo di una nuova umanità nel cuore del Mediterraneo, funestato da tragedie come quella, indimenticata, di Steccato di Cutro. Idea ricorrente è che, con Lucano a Strasburgo, l’Unione europea non possa eludere il nodo dei migranti e non eviti il confronto, anche per via della contestuale elezione di Ilaria Salis, sull’opportunità di regole comuni in materia di misure cautelari personali. È un desiderio vivo nell’ambiente della sinistra radicale; nutrito per esempio da Mario Oliverio, che ha sostenuto Lucano per le Europee e ne aveva condiviso la vittoria giudiziaria, simile alla propria: entrambi destinatari di misure coercitive obbligatorie; l’uno, l’ex presidente della Regione Calabria, poi assolto con formula piena, l’altro prosciolto dalle accuse più gravi. Invece Luigi de Magistris ha rimarcato l’amicizia personale con il (da poco rieletto) sindaco di Riace e ne ha elogiato la sensibilità, posto, ha aggiunto, che «la politica è troppo spesso inquinata da chi usa e abusa degli esseri umani». Ma si può caricare su Lucano, sulla sua persona, sulla sua storia, sul suo ruolo sovranazionale e sul carisma dell’uomo, la responsabilità, circa il destino dei migranti, di aprire da solo gli occhi all’Europa, come se la legittimazione elettorale assegnatagli fosse una delega illimitata? E chi, nel caso, dovrebbe assistere Lucano in questo compito immane, atteso che il Parlamento Ue non ha i poteri della Commissione europea, che è organo decisionale di individui non scelti direttamente dal popolo? E la semplicità, la bontà e l’onestà di Lucano sono sufficienti affinché i diritti umani rientrino tra le priorità del Consiglio europeo, che nelle Conclusioni del 17 e 18 aprile scorsi, in un contesto di piena crisi internazionale, si è limitato a esortazioni preconfezionate sull’Ucraina e su Israele, a ripetizioni concettuali sul mercato unico e ad ammissioni tiepide sulla mancanza di un’«autentica» politica energetica comune?
Sui diritti umani, è opinione diffusa, non ci dovrebbero essere asimmetrie tra gli Stati dell’Unione europea né arbìtri oppure autonomie a livello locale, come suggerisce la vicenda ungherese della Salis. L’articolo uno della Carta di Nizza, cioè la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata da quasi 24 anni, stabilisce che la «dignità umana è inviolabile» e «deve essere rispettata e tutelata». L’articolo quattro prescrive che «nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti». L’articolo cinque proibisce la schiavitù, il lavoro forzato e la tratta degli esseri umani. L’articolo 18 disciplina il diritto di asilo, «garantito nel rispetto delle norme» lì elencate. Infine, l’articolo 19 della Carta di Nizza vieta le espulsioni collettive e non consente di allontanare, espellere o estradare qualcuno «verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti». Il combinato disposto delle norme succitate rinvia alla civiltà giuridica e alla storia del pensiero europeo, che l’Ue non riesce a tradurre appieno in concreto e che, anzi, sembra avere in parte dimenticato.
Nel 1795, il filosofo tedesco Immanuel Kant scrisse il volume “Per la pace perpetua”, di cui è bene ricordare gli articoli preliminari. Per cominciare, «nessuna conclusione di pace, che sia stata fatta – ammoniva Kant – con la riserva segreta della materia di una guerra futura, deve valere come tale». Inoltre, «nessuno Stato che sussiste in modo indipendente deve poter essere acquistato da un altro per eredità, permuta, compravendita o donazione». Se non bastasse, «gli eserciti permanenti devono col tempo del tutto cessare». Ancora, «non si devono fare debiti pubblici in relazione a conflitti esterni dello Stato». Poi, «nessuno Stato deve interferire con la forza nella costituzione e nel governo di un altro Stato». Soprattutto, «nessuno Stato in guerra con un altro deve permettersi ostilità tali da rendere impossibile la fiducia reciproca nella pace futura». Fa effetto rileggere queste parole di fine Settecento con gli occhi di oggi. Alla loro spiazzante attualità, il compianto professore dell’Unical Michele Borrelli, filosofo e pedagogista di raro rigore logico e scientifico, avrebbe dedicato un nuovo capitolo (a sé stante) delle sue “Lettere a Kant”. Tornare alle premesse di Kant sulla pace perpetua aiuta, peraltro, a chiedersi dove sta andando e dove può andare l’Europa, quella per cui Altiero Spinelli auspicava una «concentrazione di pensiero e di volontà per cogliere le occasioni favorevoli quando si presentano, per affrontare le disfatte quando arrivano, per decidere di continuare quando è necessario».
Ma in Europa è proprio il pensiero che latita, se alla pandemia da Covid-19 non ha fatto seguito alcuna modificazione dell’architettura istituzionale dell’Ue; se quel biennio 2020-2022, tragico e scioccante, non è valso a rivedere le politiche economiche e monetarie della stessa Unione; se l’approccio di Kant rispetto agli armamenti è stato abbandonato a favore di posizioni politiche di comodo, via via declinate con variazioni strumentali di linguaggio; se il monito del filosofo Jürgen Habermas sulla guerra tra Russia e Ucraina, del febbraio 2023, non è stato più ripreso ed è rimasto piuttosto nell’ombra, nella campagna elettorale per le ultime Europee. I governi occidentali, aveva osservato il già esponente della Scuola di Francoforte, «devono tenere in considerazione altri interessi oltre a quelli ucraini in questa guerra; hanno obblighi giuridici nei confronti delle esigenze di sicurezza dei propri cittadini e inoltre, indipendentemente da quelle che sono le posizioni della popolazione ucraina, hanno una responsabilità morale per le vittime e le distruzioni provocate con le armi fornite dall’Occidente». Quindi, aveva concluso Habermas, i governi occidentali «non possono scaricare sul governo ucraino la responsabilità delle brutali conseguenze di un prolungamento delle ostilità, possibile solo grazie al sostegno militare offerto».
Questo è il quadro generale – di ottundimento, compressione e a tratti rifiuto del pensiero – in cui si troveranno a lavorare i parlamentari europei eletti (anche) in Calabria, che, chiamati a mantenere uno stretto collegamento con la loro (e nostra) regione, sono: Mimmo Lucano, Denis Nesci, Giuseppina Princi e Pasquale Tridico. Che cosa potranno fare per la Calabria, a lungo contestata a causa dell’utilizzo spesso improduttivo dei fondi europei? Lucano e Tridico, espressioni di una sinistra reale, potranno dedicarsi, volendo, a un’azione politica per tentare di costruire uno Stato sociale europeo sul modello più volte tratteggiato dallo stesso ex presidente dell’Inps, che aveva insistito su un reddito di cittadinanza universale finanziato tramite risorse comuni. E Nesci e Princi, rappresentanti del centrodestra, potranno spingere, se volessero, per semplificare l’accesso ai finanziamenti europei e al credito presso la Banca europea per gli investimenti; magari pure per inserire condizioni agevolate per le imprese che presentino progetti legati, oltre che agli obiettivi dell’Ue, alla riduzione del divario economico e sociale tra il Sud e il Nord.
I quattro eletti potrebbero, si spera insieme, intervenire sul piano politico perché sia ampliato il concetto di protezione della salute contenuto nella Carta di Nizza all’articolo 35, che subordina l’accesso alla prevenzione sanitaria e alle cure mediche ai dettami della legislazione e della prassi nazionale, ma nulla dice sulla gratuità delle prestazioni almeno per i meno abbienti e sui bisogni sanitari dei singoli territori dell’Europa ricavabili dai rispettivi dati epidemiologici e dalle corrispondenti condizioni di avversità climatiche, viabilità e deprivazione.
Soprattutto, i parlamentari europei Lucano, Nesci, Princi e Tridico potrebbero battersi sul piano politico, se fossero sul punto d’accordo, perché venga riformato il Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria, nel senso di rendere sostenibili e compensati – per i cittadini, non solo calabresi – i sacrifici individuali e collettivi corrispondenti agli obblighi di riduzione della spesa pubblica ivi contenuti, come nel senso di modificare l’articolo 3, comma 2, del medesimo testo, in modo che le spese sanitarie possano essere tolte dall’obbligo costituzionale del pareggio di bilancio, che limita pesantemente il finanziamento della sanità pubblica e indirizza il Servizio sanitario verso la sua progressiva sostituzione con un sistema assicurativo che penalizzerebbe oltremodo i poveri e creerebbe ingiustizie insanabili.
Altra questione, poi, potrebbe essere – e lo auspichiamo – un impegno politico dei quattro parlamentari dell’Ue perché il problema delle Aree interne sia inquadrato in un’ottica europea, anche con l’individuazione di misure specifiche che considerino le particolarità di ciascuna di esse: la natura, la vocazione e la consistenza della loro economia; le infrastrutture disponibili; la relativa carenza di servizi; le necessità assistenziali e le potenzialità su cui investire, magari senza percorsi burocratici tortuosi.
Qui si sono suggeriti argomenti che sarebbe opportuno dibattere in profondità, proprio perché l’analisi, il confronto e l’approfondimento sono alla base del pensiero critico. Che la politica dovrebbe promuovere. A Strasburgo come a Bruxelles, a Roma come a Catanzaro e a Reggio Calabria. (redazione@corrierecal.it)
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