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Etichette calabresi «bandite» da menu e cantine nei ristoranti: «il paradosso per la terra del vino»

Sul Gambero Rosso un’analisi sullo “strano caso dei vini del Sud” nei ristoranti di Roma, Milano, Bologna, Torino

Pubblicato il: 16/06/2024 – 18:23
Etichette calabresi «bandite» da menu e cantine nei ristoranti: «il paradosso per la terra del vino»

«I vini del sud fanno fatica a farsi largo nelle carte dei ristoranti che dedicano invece spazi enciclopedici a Piemonte, Veneto e Toscana». E’ l’analisi pubblicata sul Gambero Rosso in un articolo a cura di Beppe Monelli. “Lo strano caso dei vini del Sud: nei ristoranti le etichette meridionali sono bandite da menu e cantine” il titolo del pezzo all’interno del quale emerge come Calabria e Molise siano le due regioni quasi sempre assenti quando nei ristoranti di Roma, Milano, Bologna, Torino, si arriva a sfogliare la lista dei vini. “L’abbiamo cercata a Milano, la Calabria, nelle carte di Verso (chef Mario e Remo Capitaneo), Giacomo, Langosteria, Mudec (Enrico Bartolini), Berton, Sadler, Armani, Trattoria del Nuovo Macello. E non l’abbiamo trovata». Quelle meridionali sono addirittura state etichettate come “regioni minori” da Federico Veronesi, figlio del patron di Calzedonia, e soprattutto general manager di SignorVino nel corso di una intervista a Cook. Ma in fatto di vino il Sud è tutt’altro che “minore”. «Per decenni – si legge sul Gambero Rosso – il Sud è stato il vigneto d’Italia, nel senso che è servito come serbatoio per una produzione di grandi volumi, a basso costo e bassa qualità, da usare spesso come vini da taglio, per raggiungere i gradi necessari nelle regioni fredde del Nord. La Puglia è stata in prima linea in questa logica e ancora stenta a riprendersi. In Calabria – 16 milioni di bottiglie prodotte all’anno – c’è stata a lungo una produzione parcellizzata, locale, e solo alcuni grandi produttori, a partire da Librandi, hanno fatto uscire il vino locale dai confini regionali. Ma è restata un’identità confusa, con bisticci onomastici (gaglioppo e magliocco, mantonico e montonico, greco bianco e greco di Bianco), poche aziende di qualità, scarsa collaborazione e un marketing primitivo».

La Calabria un tempo Enotria, terra del vino

«Eppure da una quindicina di anni qualcosa si muove. Il Cirò sta sbancando, soprattutto con la “Cirò revolution”, dei giovani produttori naturali. Il vitigno principe, il Gaglioppo, è stato finalmente trattato a dovere. E il Cirò non è più né quel vino “magro e acidulo” descritto da Mario Soldati, in “Al vino al vino”, né quel vino al contempo piacione e rustico che rischiava di non uscire vivo dagli anni ‘80. Ora ci sono vini con Gaglioppo in purezza, con un tannino potente ma ben integrato, che spesso affinano solo in acciaio. E rosati splendidi, lontani anni luce dai provenzali o dai chiaretti: vini di grande personalità, freschezza e mineralità», si legge ancora sul Gambero Rosso: «Lo scorso anno il Cirò ha ottenuto la Docg (manca solo il via libera europeo), un riconoscimento di qualità relativo e spesso contestato, ma che ha una sua importanza nel mercato. A marzo, il collettivo della Cirò Revolution (Cataldo Calabretta, ‘A Vita, Sergio Arcuri, Cote di Franze, Tenuta del Conte, Vigneti Vumbaca e altri) è sbarcato in uno dei wine club più antichi ed esclusivi del mondo, il 67 Pall Mall di Londra». Francesco De Franco (‘A Vita) – prosegue l’articolo – è tra i produttori più lucidi e lungimiranti: «È vero che siamo una regione minore, ma solo per la quantità non per la qualità. Produciamo lo 0,2 per cento del totale del vino italiano. E il nostro mercato interno è molto piccolo: in Calabria ci sono 1,8 milioni di abitanti, sparsi in 400 Comuni». Ma non è l’unico motivo del ritardo: «Diciamo che per anni abbiamo scimmiottato i modelli che funzionavano altrove, finendo per fare la brutta copia di qualcos’altro. Negli anni 2000, il Cirò ha cambiato disciplinare, ammettendo i vitigni internazionali, proprio quando si stava cominciando ad andare in un’altra direzione». E solo pochi grandi produttori, come Librandi, – si legge ancora – erano riusciti a fare un grande vino con vitigni internazionali: il Gravello, taglio bordolese e barrique, è stato per anni l’unica etichetta calabrese nelle carte. Riprende De Franco: «Questa fase è ormai superata. Non ci vergogniamo più dei nostri vitigni autoctoni, anzi li stiamo valorizzando. Ma forse il pregiudizio che c’è ancora nei confronti delle nostre bottiglie, un po’ ce lo siamo cercato».
E ancora. La doc Terre di Cosenza (creata nel 2011) sta raggiungendo buoni risultati. «Il Magliocco – dice Andrea Petrini, uno dei responsabili della manifestazione Beviamoci a Sud – è un vino strepitoso, il Pinot Nero della Calabria, elegante e poco tannico». Giuseppe Chiappetta ne produce uno, il Terre di Balbia: «Io ho puntato tutto sul Magliocco dolce, che ora è registrato, mentre prima si doveva scrivere Magliocco canino, che è un vitigno completamente diverso. Qui da noi c’erano i friulani di Venica&Venica, che avevano impiantato sangiovese e merlot, ma non avevano una cantina, quindi si portavano le uve al nord. Ora abbiamo rilevato l’azienda e puntiamo sul nostro vitigno autoctono più importante, che è il Magliocco. Peccato che il disciplinare preveda un minimo del 60 per cento, troppo poco. Noi lo usiamo in purezza». E peccato che lo conoscano in pochi: «Perché la Calabria non comunica, siamo rimasti l’ultima regione a non essere apprezzata. Serve valorizzare il brand Calabria, nel vino ma anche nel cibo. Non abbiamo solo la ‘nduja».
«Un paradosso, – si rileva nell’articolo – visto che la Calabria un tempo si chiamava Enotria, ovvero terra del vino, e che qui lo producevano gli antichi popoli achei. All’ultimo Vinitaly si è molto parlato anche della doc Bivongi (tra le altre, Cantine Lavorata) della zona di Reggio Calabria (il rosso è fatto con gaglioppo, Greco nero, Nocera, Calabrese e Castiglione) e ora si è avviato l’iter per riconoscere la doc Costa degli Dei, nel Vibonese (tra le altre, Cantine Benvenuto e Casa Comerci)».

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