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Nomen omen, il presagio all’italiana

La locuzione latina “Nomen omen”, nel nome il destino, s’incastra sino a un certo punto. Se è vero che l’attuale ministro delle Imprese e del Made in Italy, Urso, si chiama di nome Adolfo, non bis…

Pubblicato il: 17/06/2024 – 8:29
di Bruno Gemelli*
Nomen omen, il presagio all’italiana

La locuzione latina “Nomen omen”, nel nome il destino, s’incastra sino a un certo punto. Se è vero che l’attuale ministro delle Imprese e del Made in Italy, Urso, si chiama di nome Adolfo, non bisogna arrivare a conclusioni scontate e ricamarci sopra. È vero che il personaggio in questione è un missino della prima ora, ma non bisogna arrivare a deduzioni affrettate. Anche perché “Il Giornale”, organo occulto della destra italiana, ha svelato che il soggetto avrebbe mutuato il nome di battesimo dal nonno partigiano.
Tuttavia il Nostro s’è messo in luce da solo perché avrebbe chiesto, in sede civile, a due quotidiani, tra i 250.000 e i 500.000 euro, per il fatto che quelle testate abbiano trasformato il cognome Urso in Urss con evidente riferimento allo statalismo dell’Unione Sovietica.
Ovvero, per aver criticato la sua vera o apparente politica industriale protezionistica e averlo chiamato «Adolfo Urss». Cosa ritenuta diffamante per il querelante.
Aldo Grasso del Corsera nell’edizione di domenica scorsa ha dedicato al fatto l’editoriale di prima pagina: «Nel linguaggio della politica è tollerata la clava (le volgarità del gen. Vannacci, l’elogio della X Mas, l’uso disinvolto della parola «stronza» da parte della premier) ma non il fioretto. Il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso ha querelato “Il Foglio” e “Il Riformista” sentendosi diffamato per l’uso di un “nomignolo originale ma denigratorio”: Adolfo Urss, un felice mot d’esprit per segnalare un’impronta governativa di piede statalista.
La politica non ha paura del linguaggio scorretto, anzi. L’uso della volgarità con intento offensivo è una caratteristica storica della contesa politica: il cosiddetto trash talking è una strategia che serve a fidelizzare il proprio elettorato (“è spontaneo come noi”). Quello che preoccupa è la totale scomparsa dal discorso pubblico dell’ironia, l’ultima arma civile per combattere i dogmatismi e le millanterie. Non c’è più posto per lo stile perché il discorso politico ama il grado zero del linguaggio, tende a semplificare: una comunicazione, strutturalmente modesta e poco coltivata, è più controllabile. Come scriveva Giulio Giorello sul “Corriere”, “la politica rende pesante la parola mentre la parola dovrebbe essere libera di danzare”.
Sì al vaffa, no all’arguzia, allo humour, al nonsenso che ai tempi smodati della politica oppongono i tempi eleganti del sorriso».
Di questi tempi, questo passa il convento.

PS
Urso ha risposto a Grasso cercando di chiarire l’antefatto e, soprattutto, il postfatto.

*giornalista

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