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il dibattito

Vini di Calabria, per una “revolution” come quella di Cirò serve la consapevolezza di ristoratori e consumatori

Etichette snobbate fuori regione? Qualche colpa ce l’hanno anche i locali che non propongono gli autoctoni, preferendo carte tutte uguali. Parola a sommelier ed esperti

Pubblicato il: 23/06/2024 – 17:07
di Eugenio Furia
Vini di Calabria, per una “revolution” come quella di Cirò serve la consapevolezza di ristoratori e consumatori

COSENZA Meno mode – i calabresi decenni fa bevevano “ancestrali e orange” senza saperlo -, più sostanza e consapevolezza, il successo arriverà. Nel dibattito sullo strano caso dei vini calabresi assenti nelle tavole che contano prendono la parola gli esperti, sommelier e comunicatori.
Cristina Raffaele, iscritta Fisar (federazione Italiana sommelier albergatori e ristoratori) oltre che consulente nel settore vino e per questo in contatto costante con importatori e ristoratori anche esteri, nota che «c’è un grande interesse ed attenzione per i vini calabresi, che secondo me – aggiunge – dovrebbero essere quelli con una prospettiva di crescita maggiore nei prossimi anni. Gli addetti ai lavori hanno interesse verso i nostri vini, molto meno istruito è il consumatore, e – continua Raffaele – parlo sia di quello locale che di quello non locale: è un cane che si morde la coda…».
In che senso? «Se io vado al ristorante e non chiedo un vino calabrese, il ristoratore continua non prenderlo. Io, parlando con i ristoratori, noto spesso l’assenza di etichette calabresi in carta. Quando li scelgo – mi viene detto – a parte i soliti nomi noti che hanno spinto molto sul marketing educando il gusto del consumatore, non mi vengono richiesti. Si preferiscono la Toscana, il Piemonte, il Friuli. Così i vini calabresi restano invenduti. Ecco, io punterei di più sul consumatore e sull’educazione del suo gusto».

Cristina Raffaele

“Basta conformismo e scimmiottamento”

Per Giovanni Gagliardi i vini di Calabria «hanno una grande prospettiva perché possono giocare sugli elementi che sono oggi all’attenzione del mercato: storicità, biodiversità, agricoltura sana, gusto differenziante, fermento produttivo, nuova generazione, stupore. Però…». Però? «C’è un però: il coraggio di abbandonare il conformismo produttivo e i modelli stilistici del recente passato. Ultimamente ho avuto la possibilità di assaggiare tante cose prodotte negli ultimi anni e devo dire che, sebbene stiano aumentando gli esempi di libertà rispetto a cliché produttivi che non portano a nulla, ancora è troppo poco. Non mi sono mai esposto in pubblico – aggiunge Gagliardi dalla sua Catasta di Campotenese dove predominano le etichette del Pollino ma tutti i vini calabresi hanno una prestigiosa e apprezzata vetrina – ma oggi vedo che il tempo sta scorrendo e quel tanto che si è mosso da quando osservo il settore con vinocalabrese.it, non è bastato a farci esplodere. Una mossa bisogna darsela. Non possiamo giocare solo con la variabile prezzo. Perché rimaniamo poveri, marginali e insignificanti».

Giovanni Gagliardi

Secondo Alessandra Molinaro l’analisi di Francesco De Franco con il Gambero rosso è condivisibile quando parla di identità del vino: «In passato la Calabria ha sbagliato a scimmiottare le altri regioni battendo sentieri ritenuti più facili, dando poca dignità ai vitigni autoctoni e alla propria storia enoica», un atteggiamento – dice la responsabile di Slow Wine Calabria – «che ci ha portato a essere ancora oggi un po’ indietro rispetto al resto d’Italia».
C’è di più: «Siamo una terra in cui si parla di enogastronomia ma c’è molta gastro e poco eno… Rispetto a una quindicina di anni fa, quando nei ristoranti trovavi uno o due vini calabresi, non è cambiato molto, anche nelle insegne di fascia alta: dove ne trovi qualcuno in più vedo che non c’è grande consapevolezza del territorio – continua Molinaro – e quindi ecco carte tutte uguali dettate più dal distributore che da una reale conoscenza o almeno curiosità. Non c’è nei confronti del vino la stessa attenzione per il cibo, per un piatto leggiamo diciassette righe mentre per un vino si specifica solo se è bianco, rosso o rosato, le carte dovrebbero raccontare il territorio. Inoltre spesso manca la figura del sommelier maitre che cura la gestione della cantina: di qui scelte scontate e banali, senza un criterio, un filo logico e una filosofia dietro. Se non abbiamo questa consapevolezza nei ristoranti calabresi, come possiamo pretenderlo da quelli fuori regione? Siamo noi stessi a ignorare e trascurare la nostra cultura enoica, certo poi parlare di enoturismo è bellissimo ma la realtà è un’altra…».

Alessandra Molinaro

Inoltre per Molinaro «il vino in Calabria non è ancora considerato un alimento, pur essendo quello più identitario» ed esiste infine un ultimo problema che riguarda la comunicazione, «un linguaggio troppo tecnico che allontana le persone dal vino». C’è anche qualcosa di buono: «Vignaioli consapevoli del loro territorio come quelli della Cirò Revolution che sono tornati ai vitigni identitari». Esiste la possibilità di una Calabria Revolution? Forse. Intanto tocca appuntarsi queste 7 parole: identità, conoscenza, consapevolezza, curiosità, criterio, dignità, territorio.

I consorzi e gli stellati

Altri fattori positivi, a margine. La conferma del Terre di Cosenza e la crescita del Consorzio dei vini del Reggino – con nicchie di tutto rispetto come il Bivongi – ma anche il fermento dell’Accademia del Magliocco (fresca di Magliocco day) e l’attivismo delle Donne del Vino dimostrano che oltre al Cirotano la Calabria ha molto da dire. Nelle guide di settore le aziende calabresi aumentano.
La cipolla di Tropea è presente su tutte le tavole d’Italia, oltre che nei panini dei colossi del fast food e nei grandi marchi dei surgelati; le clementine si trovano a prezzi stratosferici sui banchi della grande distribuzione del nord; la ‘nduja è ormai sinonimo di Calabria, in un ventennio ha oscurato il peperoncino: ora serve soltanto comunicare meglio questa qualità e diversità anche nel bicchiere per poter invadere le tavole d’Italia, o almeno iniziare ad affacciarvisi.
Gli esempi non mancano: da Nino Rossi che nel suo stellato Qafiz declina il Magliocco come fosse un pinot nero per la sua cucina (i Cirò di ‘a Vita e Ceraudo ma anche Antonella Lombardo dal Reggino e Origine e Identità dal Vibonese) ai vignaioli cosentini di Tenuta del Travale (Rovito), che con il loro Nerello Mascalese – e da poco anche Cappuccio nel Rosato Epicarma – forniscono gli stellati di oltre-Pollino presidiando la fascia altissima.
E se produttori come Paolo Ippolito ritengono difficile riuscire a fare massa critica e avere un peso rilevante nel mercato nazionale per via della esigua produzione vitivinicola (lo 0,4% di quella nazionale), l’assessore regionale Gianluca Gallo ripete spesso che nei ristoranti locali registra un aumento costante di etichette calabresi nelle carte dei vini. E all’evento internazionale di Roma ha parlato di un movimento piccolo – in Calabria meno di 16 milioni di bottiglie quest’anno, tra peronospora ed eventi climatici estremi (in generale annata 2023 da archiviare in Italia: 38,3 milioni di ettolitri, dato più basso degli ultimi 76 anni, fatturato complessivo -0,2% ed export -0,8% sia in volume che in valore — fonte Mediobanca/Nomisma) – eppure dalle grandi potenzialità, non tutte inespresse. Lo stand unico all’ultimo Vinitaly dimostra che muoversi compatti genera nuove attenzioni. E magari, prima o poi, anche reputazione e infine mercati. (e.furia@corrierecal.it)

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