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L’antropologa e il Sud: «rampa di lancio per nuovi orizzonti»

Patrizia Giancotti ha girato il mondo e si è fermata a Palermiti borgo calabrese di mille anime protette da San Giusto martire

Pubblicato il: 26/06/2024 – 17:04
di Romano Pitaro*
L’antropologa e il Sud: «rampa di lancio per nuovi orizzonti»

L’antropologa ha girato il mondo, pubblicato più di cento reportage su riviste blasonate e allestito cinquanta mostre fotografiche in Italia, Francia, Germania, Portogallo, Africa e Brasile. Ma, da un po’ di tempo, s’è fermata sulla bella collina di ulivi e rigogliose viti a un salto dallo Ionio. A Palermiti, borgo calabrese di mille anime protette da San Giusto martire, festeggiato il 14 luglio con processione, banda musicale e fuochi pirotecnici.
Né si può dire che, dopo aver studiato gli sciamani dell’Amazzonia e insegnato a Milano all’Università S. Freud di Vienna, l’antropologa sia tornata per incarnare la malinconica speranza meridionale della “Ritornanza”, visto che, sebbene di padre calabrese, è nata a Torino.
Tutto il mondo è paese, si dice. E, forse per un senso di fisiologica stanchezza o per continuare a stupirsi, Patrizia Giancotti, 66 anni a giugno, aggiunge che, in fondo, “il paese è tutto il mondo”. Ed eccola, armi e bagagli, a Palermiti.
Ma che ci fa in un piccolo paese delle Serre quest’antropologa, scrittrice, autrice e voce radiofonica che, da fotoreporter, si è occupata, nel corso della sua lunga carriera, delle danzatrici del Benin e delle sacerdotesse di Bahia?
Cosa frulla nella testa di quest’intellettuale che per dieci anni ha fatto ricerche antropologiche in Brasile collaborando con lo scrittore Jorge Amado e che oggi insegna all’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria che raggiunge, da Soverato, con il treno regionale?
Intanto sta irrorando le resistenze di minoranze combattive. È in prima fila per la valorizzazione archeologica delle cavità rupestri di Palermiti in cui si rilevano graffiti di datazione incerta, e dà manforte nel contrasto all’eolico selvaggio e “alla cieca logica del profitto a tutela della sublime bellezza blu zaffiro del Golfo di Squillace”.
Ma il punto vero del ritorno a casa, lo spiega bene lei stessa: «Considero questa terra il luogo delle mie origini. E posso affermare che il mio amore per le espressioni culturali delle società più diverse proviene direttamente da quel focularu di fronte al quale, quando avevo quindici anni, la zia Caterina mi cantava le sue canzoni in dialetto. Dalla fiamma di quest’entroterra calabrese, è stata proprio lei ad indicarmi la strada universale dell’antropologia, che si occupa dello studio dei comportamenti umani che attengono all’ampio concetto di cultura, inteso come patrimonio collettivo. Come chiarì l’antropologo britannico Tylor nel 1871, cultura è quell’insieme che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società». Praticamente tutto? Riprende: «Tutto ciò che si può insegnare e tramandare, dunque tradizioni, preparazioni alimentari, pratiche magico-religiose, musica, danza, saper fare artigiano. Compito dell’antropologia è anche documentare tutto ciò che sentiamo sul punto di scomparsa, o che si sta trasformando in altro. E proprio dagli incontri estivi con l’anziana zia che si faceva portavoce del linguaggio poetico del secolo precedente, nasceva quell’impulso a fissare, a ‘catturare’ i frammenti di un mondo che sembrava sul punto di svanire. Non sapevo che quell’attitudine potesse applicarsi a un ambito di studi, addirittura a un mestiere, ma con inconsapevole urgenza antropologica, mi impegnavo a documentare quel patrimonio vivo. Sia fotografando volti, sguardi e gesti del tempo della festa e del quotidiano, che scrivendo le parole antiche dell’eloquenza dialettale, quando sulla bocca della zia affioravano proverbi, racconti di corteggiamenti, di delitti e devozioni, serenate, poesie e scongiuri. Scoprivo l’interesse per la cultura della tradizione orale, quella che si tramanda nella prassi da una generazione all’altra».
Intrecci generazionali, partenze e ripartenze e, a un certo punto, il ritorno senza ripensamenti potrebbero far credere che l’antropologa cerchi la pace dei neuroni tra le vecchie case di un paese dell’entroterra alle prese con spopolamento e fragilità sociali.
«Nient’affatto», assicura: «Da questo immenso patrimonio, ‘intangibile heritage’, di cui la Calabria, che per me è un osservatorio privilegiato, è ricca, io rivendico ironicamente una mia presenza umana e professionale a Sud, che si declina in libri, reportage, conferenze-spettacolo, mostre e lavori audiovisivi. Tutto incentrato su una realtà geografica e antropologica che oltre ad essere il luogo delle mie origini, rappresenta per me una rampa di lancio per nuove mete e nuovi progetti culturali nei quali persino le ferite aperte dello spopolamento delle aree interne, possono diventare spazi liberi dove immaginare nuovi orizzonti».
C’è nostalgia nelle sue parole, ma anche, nonostante le molte scarpe consumate sulla strada della vita, tanta voglia di contribuire a far conoscere la Calabria profonda. E fiducia nella possibilità «di veder crescere un’umanità nuova che non dimentica il passato, vuole migliorare il presente e costruire il futuro». A partire da qui e da ora. E, senza aspettare Godot, con ciò che si ha (adesso!) a disposizione.

*giornalista

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