Nel gennaio del 1994, Silvio Berlusconi lanciò con un video, ancora ricordato, la candidatura personale in vista delle Politiche di fine marzo di quell’anno. «L’Italia è il Paese che amo. Qui – esordì – ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti». «La vecchia classe politica italiana è stata travolta dai fatti e superata dai tempi», spiegò l’imprenditore milanese, che chiarì le ragioni della propria scelta. «Dobbiamo costruire insieme – concluse – un nuovo miracolo italiano». Più avanti ne riprese la comunicazione Matteo Renzi, “Il rottamatore”, che alle Primarie del 2012 si avvalse dello slogan e del logo “Adesso!”, riconducibile all’eterno presente che ai tempi già si viveva a causa dello sviluppo dei social. Poi la scena fu tutta per Beppe Grillo, in grado di riempire gli spazi virtuali e le piazze urbane con il suo già sperimentato «vaffa». Oggi due donne, Giorgia Meloni ed Elly Schlein, si contendono il primato della comunicazione politica con frequenti botta e risposta reciproci.
Nel tempo la comunicazione politica si è trasformata: il discorso politico è pressoché scomparso, almeno nella forma articolata, elegante e carica di pathos della seconda metà del Novecento, soppiantato da sintesi, grafiche, slogan e motti di spirito. Ne parliamo con la sociologa Giuseppina Pellegrino, ricercatrice di livello internazionale che nel dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università della Calabria insegna Comunicazione, partecipazione e innovazione tecnoscientifica, già Visiting fellow nelle Università di Edimburgo, Lancaster, Graz e Darmstadt, con una pregressa esperienza nell’Università di Pittsburgh, dove ha insegnato Italian Media, Gender and Politics.
Professoressa, lei è d’accordo sul fatto che il discorso politico è finito, rimpiazzato da messaggi brevi che non spiegano la complessità dei problemi reali e sembrano rivolti soprattutto a masse ipnotizzate?
«Sono piuttosto d’accordo. Che il logos politico sia scomparso è però il risultato di una lunga stratificazione storico-sociale e di trasformazioni convergenti che hanno riguardato i tre elementi che costituiscono la comunicazione politica, cioè: il sistema dei media, il sistema politico con i politici e poi i cittadini. La comunicazione politica sta all’intersezione fra questi tre mondi. Qual è ora, fra i tre, il mondo più potente? Se seguiamo la prospettiva di un teorico sociale dei media che si chiama Nick Couldry, esiste il “mito del centro mediato”, cioè i media si propongono in maniera costante e continua come attori principali nella costruzione della società e del discorso, quindi anche del discorso politico, fagocitato dal discorso mediatico. Ciò al punto che un sociologo della comunicazione politica, tra i massimi esperti in Italia, Gianpietro Mazzoleni, parla già da qualche anno di “politica pop”, cioè di una politica mediatizzata, divenuta prodotto di consumo popolare».
Per esempio?
«L’infotainment, il talk show alla “Porta a porta”, in cui non c’è più un confine tra la politica, lo spettacolo e il gossip. Questi generi e i loro linguaggi si sono completamente ibridati, sino a confondersi, a perdere anche una parte di identità. Per converso, pensiamo un attimo al linguaggio della politica dei partiti di massa nel dopoguerra, che era forse fin troppo elitario, fin troppo critico ma capace del respiro del logos».
Potremmo spostarci nell’ambito filosofico, pensando alla teoria dell’argomentazione, di Chaïm Perelman. Sino a buona parte degli anni ’90, la sfida politica era nella capacità di argomentare. Celeberrimi furono gli scontri dialettici tra Gianfranco Fini e Massimo D’Alema. Oggi si è tutto molto asciugato: il messaggio è diventato sempre più povero. Da Renzi in avanti, i cambiamenti del discorso politico diventano ancora più marcati. Di recente, per esempio, tra gli episodi più diffusi sui social c’è stata la battuta a Caivano del presidente del Consiglio dei ministri nei riguardi del presidente della Regione Campania. Sembra quasi come se la sfida sulle argomentazioni sia stata sostituita da quella sui motti di spirito. Lei come la vede?
«Condivido la sua ricostruzione. Però, prima di Renzi, tornerei agli anni ’90. Non possiamo ignorare che nel ’94 succede qualcosa che determina una rivoluzione di linguaggio nella politica italiana e in quella occidentale in senso lato. Mi riferisco all’ascesa di Silvio Berlusconi al potere. Nel 1996, un indimenticato intellettuale cosentino, il collega Marcello Walter Bruno, scriveva “Promocrazia”, anticipando tantissime analisi già riassunte nel sottotitolo, che è “Tecniche pubblicitarie della comunicazione politica da Lenin a Berlusconi”. La comunicazione renziana è figlia del berlusconismo. Berlusconi ha uniformato la comunicazione politica al marketing, alla comunicazione di impresa, alla pubblicità. Ha modellato e riplasmato la comunicazione politica in base al marketing e alla pubblicità».
Poi è arrivato Gianroberto Casaleggio, che ha intuito il potere del web e ha applicato in rete quelle tecniche di marketing?
«Anche nel sistema dei media, noi tendiamo a pensare che il nuovo distrugga il vecchio, ma non è così. La storia dei media mostra, invece, la complementarità tra il vecchio e il nuovo. I media mainstream sono in crisi, sono costretti a inseguire i social media. Ma, questo inseguimento, lo dico anche da ex giornalista, diventa complicato».
La interrompo un attimo. Mentre i partiti tradizionali fornivano una visione del mondo ai rispettivi elettori e si pronunciavano su grandi temi, per esempio sulla pace, ora prevale una logica commerciale nei contenuti della politica, nel senso che l’argomento più “popolare” viene utilizzato e sfruttato sui social. Non c’è il rischio che anche questo aspetto, insieme al mito della casta, alla delusione generale eccetera, determini un allontanamento dalla politica e quindi contribuisca all’astensionismo?
«Faccio una piccola premessa sui social, perché finora non siamo entrati in questo tema. Chiaramente il Movimento Cinque Stelle ha fatto da apripista in un modo abbastanza pionieristico, ma poi si è perso per strada, potremmo dire. Agli inizi, la forza di Beppe Grillo, attenzione, fu quella di coniugare il web e la piazza, cioè di mostrare un approccio integrativo tra il vecchio e il nuovo: le piazze del V-Day e la piattaforma Rousseau. I social hanno portato il sentiment nella politica, cioè la sentiment analysis, ovvero quella percezione di un’emozione che è facilmente manipolabile. I trending topics di X, già Twitter, sono l’emblema di questo sentiment. Qui potremmo aprire un discorso, che non apriamo, sulla costruzione delle emozioni nel linguaggio politico e anche sull’uso di quelle locuzioni di cui dicevamo prima. Riguardo al citato scontro tra Meloni e De Luca, rileva la battuta, ma dov’è il discorso? Non c’è più un’articolazione del discorso, non posso che essere d’accordo con lei».
Non solo non c’è discorso, ma manca l’individuazione del problema. Anche quando si prova a tematizzare grandi questioni come l’autonomia differenziata, lei ha l’impressione che tutto si riduca a motteggio tra le parti, che si prediligano slogan e al massimo pensieri brevi privi di argomentazione?
«Non c’è comunicazione, senza condivisione di codice. È la prima cosa che dico ai miei studenti quando inizio il corso: se non c’è un codice condiviso, non ci può essere comunicazione; se non c’è riconoscimento dell’altro come interlocutore paritario, non può esistere comunicazione. Nel caso specifico, vengono meno le basi – non solo in senso filosofico o retorico – del logos, ma proprio in senso pragmatico. Cioè, come usiamo la lingua e il linguaggio? Qui mi piace citare due autori e due libri: Gianrico Carofiglio con il riedito “La manomissione delle parole”, in cui si parla del berlusconismo, e la sociolinguista Vera Gheno, uscita poche settimane fa con “Grammamanti. immaginare futuri con le parole”. Allora, che cosa è un linguaggio, se le parole sono abusate, sono manipolate, sono smarrite? Per questo non c’è solo una responsabilità della politica, ma vi è pure una grande responsabilità dei media, che, per ribadire la propria centralità, poi fagocitano l’impossibile. Il sistema in crisi è facile preda, e quello politico è indubbiamente un sistema di crisi. C’è una via di mezzo possibile tra un linguaggio elitario e un linguaggio che sia completamente svuotato? Ci può essere una via di mezzo tra le “convergenze parallele” di Aldo Moro e la battuta, pronunciata a Caivano, “piacere, sono quella stronza della Meloni”? La virtù sta nel mezzo, come si dice».
Tornerei un attimo alla domanda che le avevo rivolto. Lei non ha l’impressione che, nell’universo della comunicazione immediata, i partecipanti al dibattito (social) siano come monadi isolate, incapaci di comunicare e di riconoscersi come parte di qualcosa, di un movimento, di una forza politica, di un soggetto con idealità, obiettivi di carattere generale, interessi collettivi da perseguire? È l’antropologia, fine a se stessa, del digito ergo sum? Vi è un nesso con il fenomeno dell’astensione che registriamo quando si vota?
«La ringrazio perché mi ha riportato al punto di prima. Si tratta di nuove ragioni, nuovi moventi per un fenomeno che non è, chiaramente, di oggi. La cosiddetta disaffezione dei cittadini alla politica è un fenomeno datato. La crisi dei partiti di massa è una crisi della rappresentanza politica; è una crisi della qualità della democrazia, come dicono anche i politologi. Ma è chiaro che questo universo dei social media, questo sistema dei social network, ha dato man forte all’astensionismo. Anche se ci sono molte ricerche che rivalutano il carattere trasformativo dei social media, quindi la possibilità che essi fungano da attrattori, collettori, motori propulsivi dell’impegno politico. Mi riferisco qui, per esempio, alle Primavere arabe, ai movimenti sociali e allo stesso Movimento Cinque Stelle, che alle origini trovava nella rete un elemento di costruzione fondamentale».
Però?
«Come sempre, c’è un’altra faccia della medaglia, ed è quella che lei sintetizzava con il “digito ergo sum”. Bisogna riflettere sulla partecipazione sollecitata dai social media, anzitutto da Facebook. La partecipazione vicaria, surrogata, e l’incremento delle emoji, delle reazioni, ha da un lato arricchito la partecipazione politica, dall’altro l’ha disincentivata. Siccome io posso manifestare una varietà emozionale nell’interagire con il post, con il contenuto, sono ancora più soddisfatta di quella interazione, che è vicaria, surrogata, remota, a distanza, costitutiva di ciò che un medium è per definizione. Un medium realizza una distanziazione spazio-temporale. Questa pare adesso superata, perché siamo sempre nella comunicazione della connessione e dell’istantaneità. Allora, la fascinazione, la seduzione dell’istantaneità ci fa perdere la storia, il senso della storia».
Da questo punto di vista, sul Corriere della Calabria, avevamo chiesto a Derrick de Kerckhove una soluzione per recuperare l’elaborazione e l’articolazione del pensiero e per riacquistare una capacità di immaginazione, che sono due aspetti essenziali della politica. Secondo il teorico canadese, il ritorno alla lettura e alla poesia sarebbero due buone soluzioni in proposito. Lei è d’accordo?
«Ho letto di recente, su un sito di informazione locale, del primo reading party a San Lucido. È un’iniziativa già fatta in grandi città: un’ora e mezza di disconnessione per leggere insieme dei libri. Si tratta di un’attività ordinaria dei gruppi di lettura, quindi tutta questa novità non è. Ci hanno messo un’etichetta perché gli anglicismi fanno effetto. Non sono qui a dare la soluzione o nemmeno a prefigurarla. Ma posso registrare e condividere con lei questo tema della disconnessione, di cui io mi sono anche occupata a margine delle mie ricerche. È un tema che, però, attenzione, può essere anche fagocitato dal sistema neoliberista, che lo fa diventare un detox, una forma di disintossicazione per essere ancora più performanti dopo che ci siamo rigenerati».
È possibile un ritorno alla politica come discorso di prospettiva?
«Nella sua teoria dell’addomesticamento, la domestication theory, Roger Silverstone osservava che ci sono processi per cui noi rendiamo familiare quello che è selvaggio, quello che è sconosciuto. Per esempio, la televisione, quando arriva nelle case, riplasma completamente la vita quotidiana. Dunque, ogni nuovo medium riplasma tutto l’insieme, non esiste che uno nuovo distrugga quello vecchio. Allora, in questa ristrutturazione complessiva, c’è abbastanza un indottrinamento verso un’illusione di autonomia».
Secondo lei, rispetto a un eventuale processo di ritorno all’umanesimo, la scuola e l’università sono preparate oppure anche gli insegnanti e i professori sono vittime dell’ecosistema dei media?
«Ora si propone di togliere il cellulare dalle classi e di dare ai docenti una formazione tecnologica. Mi pare che vi sia un paradosso. Quali tecnologie vogliamo che vengano usate? E come? Non c’è molta chiarezza su questo. Che idea di tecnologia abbiamo? Come possiamo tornare all’umanesimo, o costruirne uno nuovo, se siamo ostaggio di una logica quantofrenica, cioè che pretende di misurare tutto? Dovremmo rifletterci sopra».
In una delle sue ultime interviste, rilasciata proprio al Corriere della Calabria, Nuccio Ordine volle ribadire il valore della letteratura e dell’umanesimo: l’utilità dell’inutile, per citarne una pubblicazione. È utopistico pensare che la lettura, il teatro, la riscoperta del pathos e il coinvolgimento emotivo reale possano determinare un cambiamento delle coscienze e quindi anche un coinvolgimento politico vero?
«Mi ha posto una domanda da un milione di dollari. Qui potremmo discutere sul concetto di utopia, di cui c’è sempre bisogno. Posizioni come quella di Ordine hanno un valore etico di per sé, perché l’utopia disegna un orizzonte. Sulla fattibilità, poi, passiamo a un altro livello. Lì dovremmo aprire discorsi sui massimi sistemi».
Che cosa pensa della comunicazione politica del presidente della Regione Calabria e che cosa pensa della comunicazione politica dei suoi avversari?
«Sempre troppo poco si tiene in considerazione che la comunicazione è anche un boomerang che torna al mittente. Questo vale in generale per tutta la comunicazione, ma vale a maggior ragione per la comunicazione di promozione d’immagine, che non è esattamente la comunicazione pubblica. Si tiene sempre in troppo poco conto, cioè, il valore e il ruolo che la verifica della comunicazione può avere nel contesto. Bisogna allora stare attenti a non esagerare, perché nel lungo periodo le esagerazioni portano, nel campo della comunicazione, a effetti opposti rispetto a quelli attesi». (redazione@corrierecal.it)
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