VIBO VALENTIA Al termine del processo “Rimpiazzo”, celebrato con rito ordinario, era stato condannato a 8 anni di carcere. Una sentenza poi ribaltata in appello, con i giudici che hanno deciso per la sua assoluzione. Per Andrea Ippolito Fortuna sono, infatti, cadute tutte le accuse relative alla presunta estorsione ai danni di Giovanni Pietro Ceravolo, amministratore e gestore del ristorante “Batò” «consistente nell’aver usufruito di pasti gratis o ad un prezzo irrisorio».
Secondo l’avvocato difensore (Francesco Muzzopappa del Foro di Vibo Valentia) elemento scriminante era rappresentato proprio dal verbale reso proprio dall’imprenditore nel quale aveva dichiarato di conoscere Ippolito Fortuna e il figlio Francesco «solo “di vista”, di non aver mai ricevuto minacce o violenze dagli stessi e di non aver mai dovuto sottostare a mancati pagamenti del conto presso il suo ristorante». Inoltre, nel corso del controesame del 9 giugno 2021, il teste della Pg di Catanzaro – si legge nelle oltre 400 pagine delle motivazioni – rispondendo alle domande poste, aveva fatto emergere come l’attività svolta nei confronti dell’indagato si era limitata alle sole intercettazioni «senza un minimo accertamento circa la frequenza dello stesso presso il ristorante il “Batò”», annotano i giudici.
Fortuna, come sostenuto dalla difesa, era intervenuto per «chiarire un incidente intercorso tra il nipote e un dipendente di Ceravolo». E, inoltre, dalla conversazione citata tra l’altro, «emergeva con assoluta evidenza un rapporto certamente confidenziale tra i due», annotano i giudici «ma anche delle ferme prese di posizione di Ceravolo circa la gestione del locale e delle indicazioni impartite ai propri dipendenti». Dichiarazioni che, secondo i giudici, «confermavano come il Ceravolo non fosse soggetto intimorito da Ippolito Fortuna». Come si legge ancora nelle motivazioni, l’insieme dei dati esposti «consegnava dunque una ricostruzione fattuale totalmente diversa rispetto agli addebiti a carico del Fortuna, non essendovi un singolo elemento atto dimostrare un’attività estorsiva dell’imputato ai danni del ristorante “Batò”» ovvero elementi che «certificassero senza censure un solo episodio in cui Ippolito Fortuna aveva cenato senza pagare il conto». Secondo i giudici, infatti, tra Fortuna e il titolare del locale c’era «un rapporto confidenziale» e, riconoscendo questo rapporto, il ristoratore concedeva «della scontistica a Ippolito Fortuna in ordine ai pranzi consumati, sconto che avveniva volontariamente e in assenza di qualsivoglia forma impositiva che peraltro non era stata minimamente accertata». Per i giudici, insomma non c’è «la dimostrazione che lo stesso agisse avvalendosi della forza intimidatrice secondo modalità mafiose».
Da un’altra conversazione in esame, sostanzialmente Ippolito Fortuna comunicava al proprietario che Gues (un dipende del Batò) aveva “cacciato” il proprio nipote dal locale. Ceravolo spiegava che i dipendenti hanno delle direttive da seguire «quindi non si poteva pretendere che dal torto passasse alla ragione». Come annotano i giudici, l’imputato assecondava l’imprenditore, «tanto da scusarsi con il proprio interlocutore». «Il passaggio evidenziava come Ceravolo non fosse soggetto intimorito» scrivono i giudici nelle motivazioni ed aveva specificato che «se vi fosse stato un qualche problema avrebbero dovuto fare riferimento a lui, senza infastidire i dipendenti». Per i giudici che lo hanno assolto «il colloquio intercettato confermava quanto indicato da Fortuna nel proprio interrogatorio di garanzia, ovvero che aveva un rapporto di conoscenza e confidenza con Ceravolo». «Frequentava il “Batò”, pagando meno di quanto risultava dal conto e che ciò accadeva per il rapporto di conoscenza con Ceravolo e non per una imposizione maliosa». «Nelle conversazioni intercettate non risultava un solo caso in cui Fortuna o il figlio Francesco avessero usufruito di consumazioni senza pagare, tant’è vero che il figlio era stato assolto», chiosano i giudici motivando l’assoluzione anche di Ippolito Fortuna. (g.curcio@corrierecal.it)
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