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profilo ed evoluzione

Vincenzo Pasquino da “capraro” a broker pentito del narcotraffico globale

La sua collaborazione con la giustizia italiana e internazionale segna il passaggio di un’epoca. Ecco com’è cambiata la ‘ndrangheta contemporanea

Pubblicato il: 02/07/2024 – 7:00
di Paride Leporace
Vincenzo Pasquino da “capraro” a broker pentito del narcotraffico globale

Le ultime cronache di ‘ndrangheta offrono copiose dichiarazioni e confessioni in forma di verbali e memoriali di tal Vincenzo Pasquino, 34 anni, arrestato il 24 maggio 2021 in Brasile con il celebre calabrese Rocco Morabito detto “Tamunga”, all’epoca dello scattare delle manette secondo latitante più noto d’Italia, secondo solo a Matteo Messina Denaro che in quanto a celebrità e latitanza non lo batteva nessuno. Pasquino venne arrestato in compagnia della sua signora, Morena Maggiore, figlia di Giuseppe, professione narcotrafficante appartenente alla mafia catanese. Pasquino, indicato come broker di riferimento delle cosche di San Luca, per il narcotraffico globale ha una biografia che va approfondita per comprendere come è cambiata la criminalità organizzata calabrese.

Dalla “Barriera” alla formazione degli Agresta

Il nostro Vincenzo Pasquino calabrese lo è di seconda generazione, perché nato a Torino. Ha il suo romanzo di formazione nel quartiere Barriera di Milano, quello che i vecchi torinesi chiamavano “Bariere di Emme” in ricordo della vecchia dogana, poi quartiere industriale profondamente modificato nel corso del tempo. Chissà se Pasquino sapeva di essere cresciuto nello stesso quartiere dove abitavano i membri della celebre banda di Pietro Cavallero e Sante Notarnicola il quale sul finire degli anni Sessanta rivelò uno sconosciuto gangsterismo con venature politiche che si meritò anche un film di Lizzani con Gianmaria Volontè passato agli archivi come “Banditi a Milano” essendo la capitale meneghina il teatro delle scorribande sanguinarie in cui assaltavano banche con tecniche mai viste prima. Anche Vincenzo Pasquino nel nuovo secolo aveva a che fare con le rapine a mano armata e assalti ai portavalori. Complice di banditi sardi urbanizzati, autore di spedizioni punitive nei confronti di gang albanesi, nei giornali torinesi viene indicato come “parzialmente analfabeta” e conosciuto nelle sue zone di riferimento come “il capraro”. Sarà formato a ruoli superiori dagli Agresta di Volpiano che evidentemente lo alfabetizzano per incarichi e ruoli superiori come testimonia egli stesso in una conversazione intercettata con la moglie quando afferma: «Loro mi hanno insegnato tutto, quando puzzavo di fame mi hanno permesso di vivere. Non avevo nemmeno i 5 euro per le sigarette e chi c’era? Loro, solo loro mi sono stati vicini».

Il broker

Ascesa, trasformazione, caduta e collaborazione con la giustizia di un giovane trentenne che apprendiamo oggi capace di gestire finanziamenti cinesi per partite di droga comprata dai Nirta Versu di San Luca, ingenti quantità di cocaina spedite nel porto di Gioia Tauro, rapporti con mafiosi turchi, trattative con colombiani e narcos brasiliani, gestioni di carichi illegali all’interno di presunti carichi legali necessari alla copertura del traffico che viaggia sulle rotte planetarie.
È il fronte estero di una ‘ndrangheta globalizzata che abbiamo difficoltà a capire in Calabria nella sua interezza, quella capace di attivare ascensori sociali criminali per un quasi analfabeta di periferia, il quale cambia condotta collaborando con la Stato perché i nuovi ‘ndranghetisti non hanno lena e forza morale di sostenere il carcere duro. E tutti questi narcodollari in quali fondi e forzieri mondiali vanno a finire? Ne saprà qualcosa l’ex capraro Vincenzo Pasquino? Forse si occupava solo di logistica mafiosa tra i meridiani e i paralleli del pianeta adoperando chat a quanto pare neanche molto criptate.
La collaborazione con la giustizia italiana e internazionale di Pasquino segna il passaggio di un’epoca della nostra ‘ndrangheta, l’ultimo capitolo di una storia criminale iniziata come autodifesa degli ultimi e poi man mano modificatasi alle esigenze della modernità. Per anni sommersa e sconosciuta al dibattito pubblico, ha saputo nascondersi per decenni anche alle forme di rappresentazione dell’immaginario popolare a differenza della celebre consorella siciliana di Cosa Nostra che grazie alla saga letteraria e cinematografica del Padrino ha rappresentato la più grande agenzia di formazione gratuita per le mafie di mezzo mondo. Da pochi anni le nostre “anime nere” hanno preso corpo nella letteratura, nel cinema e nella fiction dei nostri tempi stando però a lato di una saggistica militante scritta da magistrati e giornalisti che hanno diffuso una conoscenza specialistica per addetti ai lavori (nessuno escluso dei contendenti) e per un mondo di appassionati del “genere” come lettura che oggi mi appare in netta diminuzione rispetto al tempo dei giornali di carta, quando tutti, o quasi tutti, in Calabria volevano sapere chi avevano ammazzato o arrestato il giorno prima. Non sono un mafiologo ma solo un testimone della parola e della cronaca che ha condotto ricerca su questi fatti nel corso di oltre trent’anni.

Il vecchio stereotipo

La ‘ndrangheta fuori della Calabria a partire degli anni Settanta ha alimentato uno stereotipo incapace di riconoscere le diverse Calabrie e che ha incastrato il “calabrese” come sinonimo di spregevole, arcaico, incolto, ottuso, geloso e naturalmente violento mafioso. Ne abbiamo ancora tracce in chi porta i capelli bianchi, come verifichiamo in queste ore quando Vittorio Feltri per dileggiare il look dell’europarlamentare Ilaria Salis lo equipara a quello di “una cameriera di Catanzaro” che è evidente che lui ritiene ben diverso da quello di una collaboratrice domestica di Bergamo alta. In questi brandelli di razzismo di lana grossa, in questa schiuma di Novecento, ha un suo ruolo storico la ‘ndrangheta.
Noi calabresi ci siamo adattati alla ‘ndrangheta e la Calabria è diventata una zona franca, un luogo dove tutti possono fare tutto. La forza della ‘ndrangheta è stata il silenzio sulla Calabria, la sua enigmaticità è cresciuta attorno al rifiuto pregiudiziale di avvicinarsi ad una terra che la stagione dei sequestri ha contribuito a considerare un perenne covo di ostaggi del Nord dimenticandosi troppo spesso delle vittime calabresi dei rapimenti diventate loro malgrado fantasmi di quel barbaro fenomeno.
Le conseguenze più alte le scontano ancora certi territori. La Locride, per esempio, che non riesce ad intercettare l’enormità del turismo globale contemporaneo, non solo per la difficoltà di infrastrutture inadeguate alla modernità, ma per quell’antico pregiudizio che la percepisce ancora come una zona violenta e pericolosa.

‘Ndrangheta moderna e al passo coi tempi

I personaggi che abbiamo anche ingigantito nel mito con i nostri resoconti, i 700 morti della guerra di ‘ndrangheta a Reggio Calabria tra il 1985 e il 1991, le faide, l’onorata società hanno creato uno stereotipo negativo. La ndrangheta si è modernizzata, è stata al passo con i tempi. È diventata altoborghese, si è politicizzata, ha contaminato la massoneria, si è mimetizzata nel denaro capitalistico globale, ha affidato a nuovi “sciancati” le armerie rimaste, non uccide come un tempo e trasforma i più capaci picciotti come Vincenzo Pasquino, figlio di calabresi nato a Torino, in un broker del narcotraffico. E vi confesso che non vi è nessun compiacimento in questo racconto, semmai avverto come una nausea violenta a dover scrivere in Calabria ancora di ‘ndrangheta nel rievocare fatti lontani e contemporanei. Non una nausea esistenzialista alla Sarte, sia inteso, ma come s’essa fosse provocata dagli escrementi di un qualche gigantesco sauro della preistoria. (redazione@corrierecal.it)

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