In questa settimana ha trionfato la cameriera di Catanzaro evocata da Vittorio Feltri per dileggiare l’outfit di Ilaria Salis al suo debutto da europarlamentare nella foto insieme a Carola Rackete, bullizzata per peluria non curata, e a Mimmo Lucano in misura minore forse perché maschio e comunque in tenuta minimal. A mio parere anche Ilaria Salis era molto elegante con floreale fantasia in campo bianco. Sono tempi d’insulto e di vaffa per farsi notare e provo nostalgia per gli anni Settanta quando le parlamentari radicali e demoproletarie esordivano in Parlamento in jeans ricevendo cronache più divertite e divertenti.
La querela annunciata dal sindaco di Catanzaro non ha avuto bisogno di essere presentata grazie al “patteggiamento mediatico” organizzato in diretta radio da Cruciani della Zanzara dove Feltri ha abbozzato senza scusarsi. Bene ha fatto il primo cittadino Fiorita a diffondere sui tabelloni digitali di tutto il suo comune la frase “Viva le cameriere di Catanzaro”.
Ma dobbiamo gridare viva le cameriere in ogni declinazione anche nel versante moderno di collaboratrice domestica, considerato che non è più tempo di serve e servi. Era figlio di cameriera analfabeta e di un marchese spiantato il grande Totò, e Galileo Galileo ebbe figli dalla sua persona di servizio. Feltri in questo nuovo giro di giostra ha indignato per geolocalizzazione razzista e per attacco alla funzione sociale buttandola poi in caciara con la casalinga di Voghera che per dibattito culturale è questione ben più articolata.
Le cameriere calabresi meritano rispetto perché hanno partecipato alla crescita e all’avanzamento sociale delle loro famiglie. Sono state artefici di lavoro di cura per la nobiltà decadente e per la borghesia in ascesa. Anche il Mito in Calabria mette in difficoltà le parole al vento di Vittorio Feltri. Nella leggenda popolare di Donna Canfora, raccolta da Luigi Parpagliolo e resa celebre anche da Corrado Alvaro che la riporta nel suo Sussidiario, si narra di una cameriera che porta alla sua padrona “la bella notizia” di una nave giunta dall’Oriente carica di stoffe di seta e piume candide. “Andiamo signora, troverete le vostre amiche, chè tutte sono accorse. Su, voglio vestirivi subito, venite”.
Aveva gusto la domestica della tragica fiaba e ci restituisce come anche una cameriera sa del ben vestire. E un po’ di ironia dobbiamo aggiungerla noi calabresi come ha scritto Guia Soncini sull’Inkiesta prendendo spunto dalla polemica immaginandosi direttrice dei giornali della modernità, quelli che inventano una gallery di foto su ogni parola di tendenza social. La Soncini ha immaginato di mandare un fotoreporter a Catanzaro ordinandogli di portare nel servizio “cinquanta cameriere vestite meglio della Salis, trenta prendisole che piacerebbero anche a Vittorio Feltri, cento catanzaresi che oltre ad essere fotogeniche hanno anche il PhD”, che significa dottorato di ricerca, attività da tempo diffusa anche nella remota Calabria da eleganti laureate.
Ma c’è altro da aggiungere sulle abiure di Vittorio Feltri che non si scusa ma che ha capito di aver detto una grande cavolata. Sul suo giornale il noto editorialista ha dovuto rispondere giovedi scorso al direttore di un mensile calabrese, Saverio Basile, di San Giovanni in Fiore, che lo ha invitato a chiarire il suo pensiero sulla “infelice uscita”. E Feltri rispose: “Non coltivo motivi di rancore nei confronti dei calabresi, tra i quali ho parecchi amici e alcune amiche affettuose, gente orgogliosa, dignitosa, semplice, proprio come noi bergamaschi, gente che mi piace.” E via con la giravolta con la chiosa “Le donne del Sud, forti e materne, da sempre sono colonna portante dell’Italia intera. Da bambino ammiravo la loro abilità nel preparare ricchi e gustosi pranzi con quei pochi ingredienti disponibili. Mi sembravano alchimiste, maghe, prestigiatrici”.
Feltri è di Bergamo. Città di Arlecchino, notoriamente servitore di due padroni e di diverse posizioni, maschera dal linguaggio scurrile e cantilenante nella cadenza dialettale bergamasca. Feltri, giornalista di vaglia per prosa e direttore di successo, ha prefato il bel libro di Antonio Delfino “Amo l’Aspromonte”. E in quelle pagine Feltri confessa che quel maiuscolo collega e scrittore aveva modificato in lui i suoi pregiudizi su quella montagna calabrese cui gli era sembrato vedere “un deserto di umanità, un territorio senza anima, crudele”. Sostiene Feltri che Delfino lo aiutò a far diventare “amica la sua Terra”. Forse era solo un sentimento opportunista quello contenuto in quello scritto di trent’anni fa tributato in onore di chi aveva fatto aumentare le vendite del “Giornale” in Calabria del 40 per cento con la sua firma. Quando Totò Delfino morì, io rimasi deluso dal non trovare neanche una riga di ricordo e di saluto sul Giornale diretto da Feltri. Pensate cari lettori calabresi a quanta differenza passa tra la generosità di una cameriera di Catanzaro e la “lingua biforcuta” di un illustre Arlecchino di Bergamo.
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Dovremmo pigiare con forza i pistoni della tromba nel commentare le borse e lo champagne di marca offerti per mercimonio ad un generale calabrese dei carabinieri, per le ruberie delle presunte mele marce della Sanità locale e per i politici reggini di ogni colore indagati per presunto voto di scambio mafioso. Invece è d’obbligo la sordina. L’ex sindaca di San Nicola Arcella, Barbara Mele, che preferì rinunciare a candidarsi dopo una richiesta di arresto, è stata assolta in Appello; poche righe in cronaca in queste ore anche per la definitiva uscita da Rinascita Scott del socialista Luigi Incarnato che si preparava ad una campagna elettorale regionale, e di Mario Oliverio che per altra inchiesta fu costretto a non ricandidarsi governatore per accuse che poi si disciolsero come neve al sole. Nel 2016 ci attraversò un sussulto nell’apprendere che l’ex sottosegretario Sandro Principe era stato arrestato e che nella sua Rende esisteva un intreccio tra politica e mafia. Anche l’Appello a Catanzaro ora ha stabilito che Sandro Principe, Umberto Bernaudo, Pietro Ruffolo e Giuseppe Gagliardi non erano la banda dei quattro in combutta con il clan Lanzino. Niente corruzione, nessun voto di scambio e tantomeno concorso esterno. Le prove erano esiziali. Un teorema più che un giusto processo segnato anche da ingiusta carcerazione preventiva. Per questo motivo non si pigiano con certezza i tasti della tromba per arresti e inchieste che scandiscono periodicamente la cronaca della Calabria. Spesso dopo anni arriva l’assoluzione.
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A Camigliatello Silano singolare questione attorno ad un altare ligneo. Il nuovo parroco don Raffaele ha deciso l’anno scorso una svolta modernista nell’arredo sacro rimuovendo l’altare di legno silano che piace tanto ai fedeli. Si è formato un “Gruppo Pro conservazione altare ligneo”, sono state raccolte 300 firme, inviate mail all’arcivescovo. Un incontro chiarificatore ha sortito poco. Neanche la richiesta di collocare il vecchio altare in posizione differente è stata accettata. L’altare giace ora in un magazzino della parrocchia. Unica concessione è che l’altare della discordia venga presto posizionato in un locale adiacente alla chiesa dove occasionalmente si celebrerà qualche funzione. E poi ci si chiede perché i fedeli non vanno più a messa. (redazione@corrierecal.it)
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