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Il vino imposto dalla ‘ndrangheta in Germania, il ristoratore tenta di ribellarsi: «Non lo vorrei prendere»

Nelle motivazioni della sentenza d’appello di “Stige”, gli imprenditori calabresi «pagavano merce che non serviva a nulla, per stare tranquilli»

Pubblicato il: 08/07/2024 – 10:43
di Fabio Benincasa
Il vino imposto dalla ‘ndrangheta in Germania, il ristoratore tenta di ribellarsi: «Non lo vorrei prendere»

CROTONE «Questo vino ce l’hanno cani e porci (…)». Un ristoratore calabrese in Germania si lamenta di una consegna non richiesta: 50 cartoni di vino cirotano. «E’ un po’ esagerato… ma dimmi una cosa il prezzo quanto è di questo vino?…Non lo vorrei tanto prendere, perché io… sai, posso pure aspettarmi un controllo, giusto? E non ho neanche la bolletta (…)». L’imprenditore prova a spiegare le ragioni del rifiuto all’acquisto di bottiglie del nettare degli Dei, ma il suo interlocutore non è un rappresentante in cerca dell’ennesimo affare ma un uomo ritenuto vicino alla cosca Farao-Marincola, considerata diretta espressione della cosca Grande Aracri, a capo della provincia criminale di Crotone. Il core business del clan sono «gli investimenti e con tendenza a progetti economici fuori provincia, resi possibili grazie anche all’appoggio di personaggi intranei e contigui residenti in Emilia ed all’estero». Circostanza emersa anche nel corso dell’inchiesta denominata “Stige” e ripercorsa nelle motivazioni della sentenza d’Appello. Sono state 26 le assoluzioni decise, molte, invece, le pene rideterminate rispetto alla prima sentenza emessa a febbraio del 2021.

Il business del vino

Tornando all’episodio citato, dalle intercettazioni riportate nella sentenza, la Corte ribadisce la colpevolezza di alcuni imputati in relazione all’accusa di aver imposto il vino ad alcuni ristoratori calabresi residente in Germania. «L’imposizione estorsiva dei vini distribuiti dalle cosche ha avuto necessariamente l’effetto di restringere, pur senza annullarle, le quote di mercato dei concorrenti, e in ciò si concreta l’atto di concorrenza illecita», mettono nero su bianco i giudici. La cosca, dunque, «ha potuto ottenere gli stessi risultati vantaggiosi, se non maggiori, acquisendo in modo diretto la gestione delle attività economiche soprattutto nel territorio di origine, sostituendo così le imposizioni agli imprenditori con l’appropriazione di settori di mercato gestiti in maniera di fatto sostanzialmente monopolistica o di assoluta prevalenza». Ma come avveniva l’imposizione del vino in terra tedesca. «Pressioni intimidatorie, con minaccia larvata o “silente” derivante dall’evocazione della provenienza del prodotto da soggetti vicini alla cosca». Alcuni soggetti «facevano la strada già con i ristoratori» e quando chiedevano di acquistare il vino, nessuno rifiutava «perché non volevano avere discussioni». Addirittura, i ristoratori «si accontentavano di pagare una merce che non serviva a nulla», per loro era importante «stare tranquilli». All’episodio precedentemente citato, nel quale un imprenditore mostrava palesi dubbi sull’affare, si aggiunge una ulteriore intercettazione che svela i dettagli del sistema vigente di imposizione di un prodotto non gradito. Due soggetti, intercettati, discutono della posizione assunta da un imprenditore. «M’ha detto a me che non lo vuole più. Dice che non lo vuole più». Il ristoratore, da quanto emerso, avrebbe provato anche a mediare provando a chiedere un prezzo più basso, ma la risposta è negativa. «Non gli abbassare niente, non gli abbassare niente (…) Se tu lo vuoi è così. Se non lo vuoi…».

Le motivazioni della sentenza

Sotto il profilo del metodo, scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza d’Appello, «l’aggravante è insita nelle modalità stesse della condotta, posta in essere sfruttando consapevolmente, nell’imposizione dei prodotti, il potere di intimidazione promanante dai legami con la cosca». Anche le intercettazioni richiamate esaminando la posizione di Vincenzo Farao (confermata la condanna a 14 anni in Appello) sarebbero illuminanti. L’imputato e il fratello relazionano al padre sui guadagni che l’affare garantisce al gruppo e sottolineano «abbiamo guadagnato bei soldi…» e lo stesso Vincenzo Farao riferisce al padre della spartizione dei proventi comuni. A tal proposito, sempre secondo la Corte, «quand’anche i singoli componenti del gruppo agissero in vista di profitti individuali non destinati a transitare da una “bacinella” comune, ugualmente l’aggravante agevolativa si configurerebbe, in presenza di una attività che rientrava tra le finalità tipiche del sodalizio». (f.benincasa@corrierecal.it)

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