LAMEZIA TERME In questa occasione, il racconto dell’odierna udienza del processo ordinario celebrato dinanzi al Tribunale di Cosenza e scaturito dall’inchiesta denominata “Reset” contro la ‘ndrangheta cosentina, parte dalla fine. Concluso il controesame del pentito Giuseppe Zaffonte, prende la parola l’avvocato Gianluca Garritano per dare conto al Collegio giudicante della ricezione di alcune missive a firma dell’ex collaboratore di giustizia Pierluigi Terrazzano contenenti dichiarazioni importanti. In buona sostanza, da quanto annunciato in aula dal legale, l’ex pentito avrebbe “denunciato” la presenza nella medesima località protetta di più di un collaboratore di giustizia cosentino. Non solo, alcuni si sarebbero anche incontrati e addirittura, il legale parla anche di reati commessi. (QUI IL RACCONTO)
In videocollegamento con l’aula bunker di Lamezia Terme, il collaboratore di giustizia Giuseppe Zaffonte rende dichiarazioni nel corso del processo celebrato con rito ordinario scaturito dall’inchiesta “Reset” coordinata dalla Dda di Catanzaro contro la ‘ndrangheta cosentina. Il pentito collabora con la giustizia dal 2019, ma ha un passato da rapinatore e spacciatore di cocaina e un “battesimo” ricevuto in carcere «durante l’ora d’aria al passeggio». «Mi hanno dato la “prima” e in un secondo momento ho ricevuto la seconda dote a casa di Francesco De Luca, alla presenza anche di Bruno Bartolomeo e Marco D’Alessandro. Quest’ultimo so che ha ricevuto fino alla quarta dote».
Il pentimento avviene a seguito di screzi con Marco D’Alessandro, «per colpa sua ho avuto dei debiti che non erano miei, ho deciso di cambiare vita mentre ero libero». Da quando aveva 16 anni è sempre stato «vicino al gruppo Di Puppo di Rende».
Per quanto riguarda le rapine «il riferimento era Alberto Superbo, era lui a dirci cosa dovevamo fare» mentre per la droga, invece, «la acquistavo da Alberto Superbo o da Umberto o Michele Di Puppo».
E i soldi? Chiede il pm della Dda Corrado Cubellotti. «Una percentuale dei proventi delle estorsioni e della droga veniva consegnata al gruppo», i danari servivano per «sostenere i detenuti e per pagare gli avvocati», risponde il testimone. Nel 2014 qualcosa cambia, i rapporti all’interno del gruppo si incrinano e Zaffonte – prima di uscire dal carcere – si affilia e quando esce si reca «a Saporito alla fruttivendola di Superbo, mi ha regalato 1.000 euro», poi «sono tornato una seconda volta da loro, davo una mano sulla droga e sulle estorsioni ed ho fatto da tramite con i Crotonesi per la vendita di stupefacenti».
Quello degli “Italiani” era guidato da Francesco Patitucci, anche se «alcuni membri avevano autonomia», sostiene il pentito. «Quello guidato da Roberto Porcaro con i fratelli Alberto e Danilo Turboli, Massimiliano D’Elia (che poi si allontanerà, ndr) e Antonio Illuminato» ed ancora «un gruppo guidato da Mario “Renato” Piromallo» e poi «i Presta» e gli «Zingari con la famiglia Abbruzzese alias “Banana”. Questi ultimi «si occupavano di eroina, mentre cocaina e fumo erano di competenza dei degli “Italiani”». Il rapinatore battezzato “picciotto” diventa un corriere della droga. Michele Di Puppo «era a capo del gruppo» quando, Zaffonte inizia a tessere i rapporti con i Crotonesi. «Siamo stati contattati, si occupavano di cocaina ma soprattutto di erba. Di Puppo era contrario perché diceva che si guadagnava poco, D’Alessandro invece era favorevole. Abbiamo iniziato a fare consegne mensili».
Nei racconti dell’ex rapinatore le storie si mescolano ad altre esperienze dirette nei business illeciti. Zaffonte dà conto degli stipendi corrisposti ai membri del clan in carcere. «Il nostro gruppo si era preso l’onere dello stipendio da 2-3mila euro del boss Ettore Lanzino, 1.500 e 2mila euro per alcuni esponenti della famiglia Di Puppo. Le somme, però, «a volte erano maggiori», precisa il pentito.
«Nessuno può spacciare fuori dal Sistema», dice Zaffonte in aula. Lo stupefacente deve essere acquistato dai gruppi gravitanti nella galassia criminale bruzia, in caso di “sottobanco”, cioè di acquisto da altri canali, si rischiava di essere messi da parte. Il pentito cita un episodio. Ad una persona «gli hanno spaccato un casco in testa ed ha dovuto pagare 50mila euro per non aver rispettato gli accordi». Il Collegio chiede lumi sulle regole del presunto “sistema”. Zaffonte precisa: «dal “Sistema” si acquistava e i gruppi poi spacciavano. Compravano solo persone conosciute», non estranee al contesto criminale cosentino. Per quanto riguarda i canali di rifornimento degli stupefacenti, «gli “Zingari” prendevano l’eroina da Cassano allo Jonio dai loro parenti, solo in un periodo un uomo di Rosarno era salito a Cosenza e tramite Gianluca Maestri mi aveva chiesto se potevo portarlo dai “Banana” ma non so se hanno continuato nel loro rapporto. Il nostro gruppo prendeva la droga da un uomo di Paola».
Dal racconto del pentito, emerge la volontà poi concretizzatasi di Marco D’Alessandro di voler gestire il gruppo in autonomia. «Umberto Di Puppo era sfavorevole perché pensava non fosse in grado, ma D’Alessandro ha iniziato a vendere la droga in maniera autonoma. Si riforniva di cocaina con i Vottari del Reggino». Lo stesso D’Alessandro, a detta del collaboratore, era «l’unico a fare usura, sapeva che una percentuale dei guadagni doveva andare al gruppo e faceva un regalo. Era un’attività autonoma e chi la svolgeva si assumeva tutte le responsabilità».
La famiglia Abbruzzese, meglio conosciuta come “Banana” e Roberto Porcaro erano molto vicini, «spacciavano cocaina e insieme facevano estorsioni». Secondo Zaffonte, «hanno fatto anche usura» e cita un episodio. «Un giorno mi sono trovato con Attilio Chianello, che era vicino a loro, e mi disse che i “Banana” si erano avvicinati a Porcaro». Con quest’ultimo, il collaboratore di giustizia, dice di aver avuto rapporti diretti nel 2017-2018. «Era carismatico, non usava telefoni e cambiava spesso moto e dopo l’arresto di Patitucci ha preso il suo posto: era molto temuto e stimato. So che gli era stata data una delle ultime doti di ‘ndrangheta». Lo stesso Porcaro era «molto vicino a Michele Di Puppo» mentre con Mario Piromallo i rapporti «non erano buoni». «Ci siamo recati a Castrolibero e Mario Piromallo per poco non alzava le mani a Marco D’Alessandro per un debito di droga, ci sono state discussioni per altri debiti». Con Piromallo ha avuto rapporti? Chiede il pm. «Si, mi ha favorito sulla cocaina. Anche lui era carismatico, era l’unico ad acquistare grandi quantità di droga e metterla da parte». Il pentito aggiunge: «Aveva investito i soldi in attività lecite con Mario Gervasi in un tabacchino, e poi in un centro scommesse in via Popilia, una lavanderia in via degli Stadi. Renato (Piromallo, ndr) veniva chiamato l’imprenditore. Aveva investito anche nei campi di calcetto nella zona di Vaglio Lise».
Conosce Adolfo D’Ambrosio? «Aveva una dote di ‘ndrangheta, nel 2017 era uscita una voce della sua collaborazione, poi smentita. Lui operava su Rende, a Villaggio Europa, ed aveva il bar Colibrì». Zaffonte poi si sofferma sul profilo di Gianluca Maestri, che ha deciso recentemente di collaborare con la giustizia. «Ha dato fuoco ad un locale a Montalto Uffugo». Andrea Reda, invece, «era vicino a tutti, dava anche un “pensiero” al gruppo di Rende. Si occupava di slot, di giochi e scommesse sportive. Se si doveva aprire una sala giochi bisognava prendere in considerazione lui». Carlo Drago «è stato vicino a Reda e poi si è aperto una sua attività, si è fatto sempre rispettare e poi si è avvicinato a Roberto Porcaro».
Roberto Porcaro diede l’assenso all’omicidio di Giuseppe Ruffolo. Zaffonte racconta in aula i dettagli del fatto di sangue che vede coinvolto Massimiliano D’Elia. Uno che per il pentito «aveva gli attributi» e che «rispettava Porcaro perché doveva ma era carismatico». Sei colpi di pistola calibro 7,65 vengono sparati contro Giuseppe Ruffolo a bordo della sua Alfa Romeo Giulietta mentre percorreva via degli Stadi a Cosenza. Massimiliano D’Elia, ritenuto colpevole del delitto, è stato condannato – in primo grado – a 28 anni e 6 mesi di reclusione. Le vite di D’Elia e Ruffolo si incrociano qualche anno prima del delitto, quando Ruffolo fece di tutto per scagionare il suo amico Andrea Molinari, all’epoca in carcere, perché ritenuto responsabile del tentato omicidio di D’Elia. Il presunto assassino impiegato come buttafuori in un pub di Rende (B-Side), la notte del 28 ottobre 2006, venne raggiunto da alcuni colpi di pistola. Dell’episodio venne ritenuto responsabile Molinari, che anche in carcere si professerà innocente. Ruffolo nel processo a carico del suo «amico fraterno» cercherà in tutti i modi di scagionarlo, un gesto d’amicizia che anni dopo pagherà con il sangue. (f.benincasa@corrierecal.it)
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