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I racconti di Mancuso. Dalle microspie ai droni “truccati” e i rapporti con Ascone

La testimonianza dell’ex rampollo della cosca di Limbadi. «Il mio compito era di fare controspionaggio alle forze dell’ordine»

Pubblicato il: 12/07/2024 – 12:59
di Giorgio Curcio
I racconti di Mancuso. Dalle microspie ai droni “truccati” e i rapporti con Ascone

LAMEZIA TERME «Sono figlio di Pantaleone Mancuso “l’ingegnere” classe ’61, ho fatto parte del clan Mancuso i cui principali appartenenti erano Luigi Mancuso “il Supremo” e Giuseppe “’Mbrogghia” Mancuso, fratello di mio padre. Mio fratello è Giuseppe Salvatore Mancuso, anche lui parte del clan». Si è presentato così, in collegamento dal sito riservato, il collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso, chiamato a testimoniare nel processo “Maestrale-Carthago” di scena all’aula bunker di Lamezia Terme. Davanti ai giudici del Tribunale di Vibo Valentia, il pm della Distrettuale antimafia di Catanzaro, Antonio De Bernardo, ha ricostruito il percorso dell’ex rampollo della potente famiglia di ‘ndrangheta di Limbadi. «Fino all’uscita di Luigi Mancuso, nel 2012, la famiglia era divisa in due fazioni: quella degli “11” e quella dei “7”, poi la famiglia si è ricomposta. Si occupavano di usura, estorsioni, droga, appalti, quasi tutto insomma». Poi ha spiegato ancora il pentito: «Luigi Mancuso faceva parte degli 11, zio di mio padre. Il fratello di mio padre “’Mbrogghia” faceva parte, invece, dei 7. Io ho convissuto con loro, ho vissuto queste dinamiche direttamente. Giuseppe Mancuso l’ho conosciuto prima dell’arresto del 1997 mentre era latitante. Luigi Mancuso solo nel 2012, dopo la sua scarcerazione».

La carriera criminale di Emanuele Mancuso

Su input del pm, Emanuele Mancuso ha illustrato i dettagli più rilevanti della sua “carriera” criminale. «Ho cominciato a commettere reati già da quando ero minorenne, parlo di rapine, furti, minacce in modo autonomo. Poi mi sono inserito nella cosca quando è uscito Luigi Mancuso». «Non sono mai stato “battezzato” – ha spiegato – questi riti li odiavo, non mi sono mai piaciuti ma io non avevo bisogno di doti o riconoscimenti formali, ero erede diretto essendo nipote dei più importanti capi». Poi l’inizio nel clan: «Hanno iniziato a mandarmi da diverse parti, ho iniziato a confrontarmi con soggetti di spicco, mi occupavo di diverse mansioni. Le disposizioni venivano da Luigi Mancuso, soprattutto, ma anche dai suoi “fedelissimi”, Spasari Vincenzo e Saverio, per esempio». «I principali incarichi che avevo erano di controspionaggio nei confronti delle forze dell’ordine: mi mandavano a togliere microspie, telecamere, ponti radio, facevo bonifiche nelle auto, nelle campagne. Negli anni, infatti, mio padre era fissato, portava macchinari da Bologna, da Roma e poi, tramite un negozio, abbiamo comprato una valigetta di 6/7 mila euro che ci consentiva di trovare microspie e GPS».

Microspie, gps e droni “truccati”

«Io ho iniziato a collaborare nel giugno 2018 e in quei 6 anni ho svolto questo genere di attività per la cosca», ha spiegato ancora il collaboratore di giustizia. «Una l’ho fatta per i fratelli Costantino, ho tolto un ponte radio della GdF vicino alla loro abitazione. Ho bonificato tutte le auto. Nei pressi della casa di Pasquale Gallone abbiamo trovato una telecamera che puntava verso l’abitazione di Cosmo Mancuso. Ricordo che era potentissima, riusciva a riprendere fino al Porto di Gioia Tauro». Relativamente al summit tra Luigi Mancuso tra Marcello Pesce, «ho trovato microspie a casa mia, GPS in tutte le auto, sia quelle a corrente sia quelle con le calamite che durano pochi giorni», ha spiegato ancora il pentito. «A volte le toglievamo, altre volte invece le lasciavamo» spiega Mancuso ancora a proposito delle microspie «ma dipendeva dal periodo storico e sempre dalle decisioni dei capi. Di microspie ne trovavamo ogni giorno, in continuazione, e in molti casi, come ad esempio un paio di matrimoni, le abbiamo lasciate consapevolmente». «Utilizzavamo cellulari criptati per contattare l’Albania o il Sudamerica oppure avevamo sim solo dati e sistemi sofisticati e così comunicavamo tra di noi le posizioni delle forze dell’ordine. Poi cercavamo i dati delle auto sospette e con il numero di targa, attraverso i controlli, se non usciva nulla, avevamo la certezza che fossero delle forze dell’ordine» ha spiegato ancora il pentito rispondendo alle domande del pm. «In buona sostanza loro osservavano noi, noi osservavamo loro e avevamo anche delle talpe». «Utilizzavamo anche i droni, ero un maestro dei droni. Ne avevo uno modificato, ho speso 10mila euro per potenziare immagini e ricezione».

I rapporti con Ascone

«Salvatore Ascone ‘u Pinnularu è il mio “padrino” non perché mi aveva battezzato ma perché mi ha fatto scuola su tante cose, lo chiamavo “il lupo”, era troppo furbo, ricordo che una volta gli avevo promesso l’acquisto di un quadro con un lupo. Appartenente totale alla mia famiglia, soprattutto con ‘mbrogghia, ma la famiglia è sempre stata in evoluzione, ci sono stati periodi di fibrillazione, ma Ascone era sicuramente dalla parte dei “7”». «Ricordo che da quando sono entrato in quella casa, ci sono uscito solo dopo l’operazione “Nemea”: io ero come un figlio per lui e lui per me era come un padre». (g.curcio@corrierecal.it)

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