Il 19 luglio del 1992 esplose una Fiat 126 in via D’Amelio, a Palermo. Cade oggi l’anniversario di quel tragico evento, che interroga le nostre coscienze a distanza di 32 anni, segnati da martiri, doppiezze e depistaggi. Il tempo scorre in fretta, ma la verità sembra ogni volta allontanarsi, pare irraggiungibile come il castello romanzato da Kafka.
Matteo Messina Denaro morì nel settembre dell’anno scorso, due mesi dopo la sua condanna per quella strage del ’92, giunta alla fine: a 31 anni dall’assassinio di Paolo Borsellino e di cinque agenti della scorta del magistrato. Forse mai sapremo quali segreti portava con sé Messina Denaro, né un giorno conosceremo i precisi rapporti tra la cupola mafiosa e soggetti politici, poteri, uomini pubblici di cui le cronache e la storia si occupano tra indizi, sospetti e ombre ricorrenti. Troppi testimoni potenziali dell’epoca sono scomparsi, usciti di scena, inascoltabili.
Il reggino Michele Barillaro, estensore della sentenza del processo “Borsellino ter”, restò vittima di un incidente mortale all’estero, nel luglio del 2012. Mi piace ricordarlo perché era un uomo coraggioso, un magistrato integerrimo, un servitore dello Stato che non amava affatto la ribalta, le congetture, i rumori. Dovremmo cominciare dalle biografie di abnegazione e rettitudine, per spiegare alle nuove generazioni che lo Stato è fatto dalle persone e che, dunque, esse vanno formate a sondare, discernere e capire i fatti, ad assumere decisioni e orientamenti per il bene collettivo; a prescindere dall’utile proprio.
È uno sforzo che siamo chiamati a compiere ogni giorno, perché la presenza e pervasività delle organizzazioni criminali sono un grosso problema, che va affrontato in vari ambiti; anzitutto, in quelli dell’istruzione, dell’informazione e della cultura.
Per quanto riguarda la scuola, è fondamentale parlare nelle classi delle toghe, delle divise, delle penne e delle voci che seppero opporsi alle mafie in nome di un ideale di giustizia intramontabile, che compirono il loro dovere senza prestare il fianco alla corruzione, senza cedere al denaro, alla fama, alla paura. Bisogna inoltre essere costanti nell’avvicinare i ragazzi a queste figure dell’impegno antimafia, talune, per fortuna, in vita e operative anche nella Chiesa, nell’imprenditoria, nel giornalismo. Si discuta di questi argomenti, senza il timore che appaiano inattuali e che possano annoiare o non appassionare i nativi digitali, più attratti dagli influencer, dai social, dalle mode fugaci.
Riguardo all’informazione, poi, non possiamo dimenticare o ignorare che, soprattutto in Calabria, ci servono come il pane il racconto oggettivo degli accadimenti e un’analisi di profondità. Perciò sono indispensabili, come emerse nel dibattito che il Pd calabrese promosse all’ultima Festa regionale dell’Unità, tre condizioni: la conoscibilità e pubblicabilità degli atti giudiziari nel rispetto della presunzione di innocenza e della privacy dell’accusato; la preparazione e protezione dei giornalisti in un territorio in cui è forte il dominio culturale dell’antistato e le minacce, non solo della ’ndrangheta, ostacolano l’informazione indipendente; il sostegno della stampa libera. Dobbiamo continuare a batterci, allora, al di là delle sigle di partito, per un’informazione rigorosa, critica e resistente ai tentativi di annacquamento, delegittimazione, discredito, confino o utilizzo a fini di propaganda e pubblicità.
Infine, per ciò che concerne la cultura, dobbiamo agire su tre fronti: la promozione di letture e scritture, di libri che stimolino il pensiero riflessivo; l’organizzazione di dibattiti multidisciplinari sulle ingiustizie ai danni del Sud, a partire dall’autonomia differenziata; l’educazione a consumi culturali che favoriscano ragionamenti sulla persona e interventi sociali per ridurre le diseguaglianze, contrastare la violenza e valorizzare l’arte e la creatività come strumenti di rivoluzione civile. Il Partito democratico della Calabria continuerà a lavorare proprio in queste direzioni, al di là dell’universo virtuale, lontano dalle narrazioni edulcorate e dall’autoreferenzialità. Perché la lotta alle mafie è per noi prioritaria e, come raccomandava Paolo Borsellino, «dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità».
* Segretario del Partito democratico della Calabria
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