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‘Ndrangheta, quei documenti di scomunica a firma dei vescovi Agostino e Cantisani

Dialogo con il giurista Nunzio Raimondi. «Non si ricordano più i fatti importanti della nostra storia»

Pubblicato il: 19/07/2024 – 6:53
di Emiliano Morrone
‘Ndrangheta, quei documenti di scomunica a firma dei vescovi Agostino e Cantisani

Come e con chi la Chiesa calabrese reagì alla ’ndrangheta?  Di mafie si parla ancora troppo poco, specie ai giovani. Eppure, sono passati 32 anni dall’esplosione della bomba in via D’Amelio, a Palermo, che ridusse a brandelli i corpi di Paolo Borsellino e di cinque agenti della sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Oggi, nell’anniversario di quella strage, torniamo a parlare di lotta culturale alla criminalità organizzata. Lo facciamo con il giurista Nunzio Raimondi, con cui ricordiamo monsignor Antonio Cantisani, prestigioso intellettuale cattolico che, insieme a monsignor Giuseppe Agostino, altro vescovo di primo piano, assunse posizioni molto dure nei confronti degli ’ndranghetisti.

Oggi è il 19 luglio, data che non si può dimenticare. 32 anni fa, alle ore 16.58, una Fiat 126 rubata, riempita di esplosivo Semtex-H, fu fatta esplodere a distanza in via Mariano D’Amelio, la strada di Palermo in cui vivevano la madre e la sorella del magistrato Paolo Borsellino, il cui corpo finì in brandelli. Con lui persero la vita gli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Ancora oggi si cerca verità e giustizia rispetto a quell’assassinio, che cambiò la storia dell’Italia. Le mafie sono sempre più potenti e spavalde, in grado di entrare facilmente a palazzo, di inquinare il territorio, di condizionare il mercato e l’economia, di alterare la vita democratica delle comunità locali. Ciononostante, di criminalità organizzata si parla ancora troppo poco, soprattutto ai giovani che non vissero gli anni delle stragi di Cosa Nostra. Oggi vogliamo chiederci come e con chi la chiesa calabrese reagì alla ’ndrangheta, e lo facciamo con un esperto, cioè il professore e avvocato Nunzio Raimondi, che insegna “Genesi e dinamiche dell’organizzazione criminale”, nell’Università Magna Grecia di Catanzaro.

«I documenti ufficiali delle Chiesa cattolica contro la mafia sono stati redatti a quattro mani, da Cantisani e da Agostino. Ecco, questo è importante saperlo perché sono i documenti in cui sono state prese delle posizioni molto ferme rispetto alla mafia. La Chiesa cattolica non ha mai scomunicato i mafiosi, contrariamente a quello che si dice, perché la scomunica, lo stiamo vedendo in questi giorni con Viganò, è un atto che viene assunto con bolla papale. Quindi, nel diritto canonico la scomunica viene assunta con un documento ufficiale, come una sentenza». «Se va a cercare, anche su Internet, la sentenza che scomunica i mafiosi come tali e dice che sono apostati della fede scomunicati, lei non la trova, perché non c’è mai stata posizione ufficiale della Chiesa in questo senso. C’è nei documenti della Conferenza episcopale calabra, quelli firmati da Agostino e da Cantisani, con i quali si proibiscono i sacramenti ai mafiosi. Questa è una sanzione medicinale tipica della scomunica. I nostri vescovi calabresi, questi due in particolare, hanno fatto questi documenti, che sono rimasti nella storia della Chiesa».

Monsignor Agostino, lo ricordiamo, arcivescovo di Santa Severina, vescovo di Crotone, vescovo di Cariati, arcivescovo di Crotone-Santa Severina, vicepresidente per l’Italia Meridionale della Conferenza episcopale italiana e poi arcivescovo di Cosenza-Bisignano, anche arcivescovo metropolita. Lei invece ha ricordato, di recente, monsignor Antonio Cantisani. Chi era?

«Un curriculum di prima grandezza, veramente una quantità enorme di fatti, circostanze, evidenze che in qualche maniera ritagliano il personaggio».

Quello che lei ha scritto di monsignor Cantisani mi ha riportato a un libro del cardinale Martini, che è “Verso Gerusalemme”; quindi: il fatto di essere presente nel suo tempo, di sentire la sofferenza ma in qualche modo anche di donarla. Che cosa è stato, monsignor Cantisani, per la città capoluogo di Regione?

«Monsignor Cantisani arriva a Catanzaro che è già vescovo. Lui era un professore di Latino e Greco che si impegnò poi tutta la vita in questo suo diletto che era la traduzione dal greco, dal latino, di una quantità enorme di testi. Gliene indico solo uno: lui ha tradotto, pensi, tutti i salmi di Cassiodoro. Ha lavorato in Lucania, a Lauria. Era stato per tanti anni parroco di Sapri e lì si era distinto moltissimo per le sue doti pastorali, l’umanità eccetera, fino a quando il vescovo di Tursi-Lagonegro, che lo ammirava tanto, lo propone, in una terna di vescovi, per l’importantissima Diocesi di Rossano».
«E lui è un vescovo moderno, per quei tempi, quasi mi verrebbe da dire modernista. In questo senso, (monsignor Cantisani era) perfettamente in linea con quel filone, che lei ha ben individuato, nella Curia romana, che faceva a capo al cardinale Martini. È stato un collaboratore diretto (monsignor Cantisani) del cardinale Martini, perché lui poi ha fatto tante cose importanti; fra le altre è stato anche presidente della Commissione Migrantes della Cei, quindi era uno dei grandi esperti italiani di migrazioni. Lui è un giovane vescovo che si distingue a Rossano nel momento di transizione, cambiamento, dalla Chiesa preconciliare alla Chiesa postconciliare, post Concilio Vaticano II, e ne diventa dei principi, dei valori, anche più avanzati Concilio Vaticano II, sostanzialmente il principale promotore, assertore eccetera, sulla linea – per l’appunto – segnata dal cardinale Martini. In qualche maniera, è una sorta di innovatore, attuatore dei principi del Concilio». «Quando (monsignor Cantisani) arriva Catanzaro rimangono tutti esterrefatti. Io, la prima volta che l’ho conosciuto, mi sono inginocchiato per baciare la mano; lui odiava, detestava le persone che gli baciavano la mano: voleva essere sempre di meno. Usava sempre quell’espressione della sacra scrittura, di san Giovanni Battista, quando dice: “Lui deve crescere e io diminuire”».

Monsignor Cantisani

Qual era il rapporto che la città di Catanzaro aveva con il suo vescovo?

«Su questo, qualcuno deve dire che Catanzaro non fu buttata giù dalle bombe americane, nel secondo conflitto mondiale, perché qui a Catanzaro viveva e abitava il sovrano del Grande Oriente d’Italia. Quindi, Catanzaro era una sede importante, aveva ben sette logge massoniche. Lui (monsignor Cantisani) arriva in questo ambiente nel quale si sente estraneo. Però la cosa che lui fa è questa: lui non esclude, lui cerca sempre di includere, di dialogare, di parlare con tutti. Anche le persone più lontane, lui le avvicinava per dialogare, per discutere; la sua caratteristica era il dialogo con tutti». «Quindi la città – cosa vuole? – l’ha amato. Ha dato una sterzata (monsignor Cantisani) anche al clero: ha trasformato questi preti, li ha voluti più presenti sul territorio, insomma. Tutte le rendite di posizione le ha eliminate. Faceva sempre questo, però con misura, con eleganza; aveva un suo stile, un suo stile democratico. Non so se si può dire che era un prete di sinistra».

Qual è adesso, a suo avviso, la preoccupazione maggiore dei vescovi calabresi, la legge sull’autonomia differenziata?

«La preoccupazione maggiore dei nostri vescovi l’hanno espressa recentemente anche in un comunicato molto chiaro. Cercano di far comprendere quali sono i rischi che questa riforma può produrre. Io dico, sinceramente, che non abbiamo una classe politica all’altezza».

Se monsignor Cantisani fosse stato ancora in vita, che cosa avrebbe detto?

«Avrebbe alzato la voce».

Qual è a suo avviso il problema principale della contemporaneità?

«L’autoreferenzialità. Non viviamo più in un mondo nel quale confrontarci con le idee, il pensiero, l’opinione dell’altro, le realtà, i bisogni dell’altro. No, partiamo da noi e torniamo a noi. Anche nelle celebrazioni, non si celebrano più gli eventi, le situazioni, non si ricordano più i fatti importanti della nostra storia. Se lei vede, anche quando si leggono questi fatti, anche quando si raccontano questi fatti, che si fa? Uno si autocelebra: anziché celebrare il fatto, celebra se stesso che guarda il fatto». Grazie professor Raimondi, una buona giornata.

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