“Bella ciao” è canzone simbolo della Resistenza antifascista. Ma fu veramente cantata dai partigiani o venne fuori molto dopo la Seconda guerra mondiale? Ne parliamo nel podcast di oggi, da ascoltare e leggere con attenzione.
Luigi Morrone: «Ero convinto, anche perché era la vulgata corrente, che ci fosse un canto delle mondine risalente ai primi del Novecento, che poi i partigiani avevano adattato durante la guerra civile alla loro azione militare. «Noi non l’abbiamo mai cantata», scandì Giorgio Bocca con riferimento, riguardo alla sua esperienza partigiana, al brano “Bella ciao”. Il celebre giornalista, storico e scrittore, scomparso nel 2011, riferì che la canzone simbolo della Resistenza era un’invenzione del Festival di Spoleto.
Luigi Morrone, avvocato calabrese, appassionato di storia e uomo di evidenti curiosità e risorse intellettuali, è andato a fondo su questo argomento, e ha scoperto che, in effetti, “Bella ciao” arriva molto dopo la Resistenza antifascista, come ha poi scritto in un saggio molto documentato, tra l’altro pubblicato dal “Corriere della Sera” e, siamo in Italia, ripreso di frequente ma senza la doverosa citazione. Nel podcast di oggi, allora, vi raccontiamo una storia che conferma come la sete di conoscenza, che spinge alla ricerca, consenta di raggiungere la verità, anche a discapito – in questo caso – di canti che, nell’immaginario collettivo, sono l’emblema delle lotte partigiane.
«Mi trovavo a Napoli per l’università. C’era un vecchio partigiano che era venuto dal Piemonte per il 30° anniversario del 25 Aprile del ’45. Guardando in televisione le immagini che scorrevano delle manifestazioni per la celebrazione, sentì che il sottofondo era “Bella ciao”. Quindi, fece un largo sorriso e disse che era una mistificazione, aggiungendo: “Non l’abbiamo mai cantata”. Questo mi ha messo un po’ la pulce nell’orecchio, per cui ho cominciato a fare le mie ricerche e sono andato alla Biblioteca nazionale di Napoli e ho spulciato quotidiani, libri eccetera eccetera e non ho trovato traccia di questo canto pseudo-partigiano prima del ’54. Mi sono fatto una mia idea, cioè che non fosse stato mai cantato dai partigiani durante la Resistenza e che quindi avesse ragione quel vecchio partigiano piemontese. Quindi comunicai ai miei amici napoletani i risultati di questa mia ricerca».
E poi?
«A distanza di anni, mi telefona uno di questi amici e mi dice: “Ma, senti un po’, ti riconti la cosa che tu ci dicesti quando eravamo all’università?”. Dico: “Sì, mi ricordo perfettamente che ‘Bella ciao’ non era mai stata cantata, anzi”. E il mio amico: “Guarda che la stessa cosa che dici tu, la dice Giorgio Bocca, in un libro che si chiama ‘Grazie no, sette cose che non dobbiamo più accettare’”. E allora, mi dico: “Come, anche Giorgio Bocca, che era partigiano, dice questa cosa?”. A questo punto mi metto e faccio un lavoro approfondito».
In che modo?
«Così, mi sono messo e ho girato archivi ed emeroteche. Grazie al cielo e grazie a Internet, non mi sono dovuto muovere molto. Allora, ho cominciato con un accesso a un archivio che si chiama “Canzoniere delle Lame”, perché su Wikipedia c’era scritto che quell’archivio conservava l’originale del testo di “Bella ciao” che circolava tra i partigiani. Per cui, ho scritto un’e-mail alla segreteria di questo archivio e loro candidamente mi hanno risposto: “Non l’abbiamo”».
A quel punto?
«Poi ho scartabellato l’archivio del giornale “l’Unità” e l’archivio dell’“Avanti!”, e non ho trovato assolutamente traccia di questo».
E allora?
«Gli appunti che avevo preso allora alla Biblioteca nazionale di Napoli mi sono serviti per rintracciare i libri sulle canzoni partigiane che erano uscite. Fino al 54’, non c’era traccia di “Bella ciao”. Nel 1962, era uscita un’antologia della canzone popolare italiana, edita da “Editori Riuniti”, in cui erano presenti una cinquantina di canti partigiani, tra cui non c’era “Bella ciao”. Nel 1953, Alberto Mario Cirese (antropologo, nda), su una rivista che si chiama “La Lapa”, pubblica il testo di “Bella ciao”. E la cosa strana è che pubblica anche il manoscritto che gli consegna il segretario della Federmezzadri di Viterbo e annota, a margine: “Canzone scritta, non consegnatami in copia”. Dice: “Canzone scritta da Antonio Felici, segretario della Federmezzadri di Rieti, nel 1953?”. E mette un punto interrogativo, ma il punto interrogativo è sulla data, non sull’annotazione. Però pubblica questo manoscritto e, dimenticando questa annotazione, scrive: “Questa è una canzone partigiana che è così bella che è strano che sia sfuggita, finora”. Comunque, il problema non è questo».
Luigi Morrone spiega, poi, che risultano vani tutti i tentativi allora esperiti per ricostruire una tradizione orale in grado di colmare le lacune scritte. Entrando nel merito, lo studioso precisa che non trova conferma la datazione al 1947 del brano “Bella ciao”, sostenuta da alcuni con ricorso alla tradizione orale. E, per esempio, assumendo che la canzone fosse stata presentata “alla Festa della gioventù mondiale nel 1947”. «Noi abbiamo – scandisce Morrone – i resoconti di queste manifestazioni. Sia l’“Avanti!” sia “l’Unità” riportano il resoconto di questa manifestazione e non c’è traccia di “Bella ciao”. Mentre c’è traccia di “Bella ciao” nel resoconto della stessa Festa della gioventù che si tiene a Berlino Est nel 1954. Guarda caso, sia l’“Avanti!” sia “l’Unità”, parlando della Festa della gioventù mondiale del 1954 a Berlino Est, dicono: “Cantano le canzoni della tradizione folkloristica eccetera eccetera eccetera e cantano pure “Bella ciao”. Perché nel 1947 non lo dicono?».
E quindi?
«Non solo, quello che più è convinto dell’origine partigiana di “Bella ciao” è Cesare Bermani (storico, nda), che però prende per buone delle testimonianze assolutamente inattendibili. C’è, per esempio, una che rasenta il comico, perché raccoglie la testimonianza di un partigiano che diceva: “Noi cantavamo ‘Bella ciao’ e il battere delle mani che segue questa canzone ci serviva a tenere il ritmo durante i trasferimenti in montagna”. Io sfido chiunque a tenere un fucile a tracolla e a battere le mani mentre percorre dei sentieri di montagna e mentre canta».
Altre questioni?
«Inoltre, Cesare Bermani parla di questa canzone come inno della Brigata Maiella. Sulla Brigata Maiella abbiamo una letteratura sterminata, ma soprattutto abbiamo i diari di patrioti della Brigata Maiella, che, si badi bene, non si chiamavano tra di loro “partigiani”. Quindi, “o partigiano, portami via” mi pare assolutamente improbabile. In questi diari di guerra non c’è assolutamente traccia di “Bella ciao”, ma c’è traccia degli inni che i patrioti cantavano, tra cui non c’è “Bella ciao”».
E poi c’è la testimonianza di Bocca, un partigiano…
«Poi c’è un altro discorso che ho fatto sul piano logico. Giorgio Bocca, che dice: “Noi non l’abbiamo mai cantata, è un’invenzione del Festival di Spoleto”. Giorgio Bocca partecipa attivamente alla vita politica e giornalistica: è un giornalista che scrive anche libri di storia sulla guerra civile. Avrebbe sicuramente sentito parlare di questa canzone prima che uscisse fuori nel 1953. Se dice “non l’abbiamo mai cantata ed è un’invenzione del Festival di Spoleto”, significa che non ha mai avuto notizia di questa canzone nei suoi giri in cui raccoglieva notizie per scrivere i suoi libri sulla guerra civile».
Una riprova?
«Osserviamo l’assenza di “Bella ciao”, che viene inserita in una raccolta di canti partigiani soltanto nel 1955, con una raccolta dei giovani socialisti che si chiama “Canzoni partigiane e democratiche”, in cui viene inserito per la prima volta il canto “Bella ciao”. La prima volta in cui il brano viene inserito in una raccolta di canti partigiani è nel 1955, e sono passati 10 anni. Tutte le testimonianze raccolte da Bermani sono raccolte dal ’64 in poi. Innanzitutto, sono passati 20 anni dalla guerra civile; in secondo luogo, c’è stato il grande lancio di “Bella ciao” al Festival di Spoleto del 1964, quello di cui parla Giorgio Bocca, che logicamente ha una sua incidenza sulla memoria».
Cioè?
«Ci sono degli studi fatti con il sistema del doppio cieco – condotti soprattutto da Husserl (Edmund, filosofo e matematico, nda) – che parlano proprio della capacità di influenzare i ricordi da parte degli eventi successivi a quelli in cui si sono verificati. Io posso fare decine di esempi, che mi riguardano pure, sulla erronea collocazione cronologica di un determinato dato. E sulla fallacità della memoria ci sono studi scientifici bizzeffe».
Induzione all’errore?
«Non solo, ma Bermani non tiene conto di una cosa: lui sostiene che la canzone sarebbe nata a Reggio Emilia; dimentica che, sulla resistenza nell’Emiliano, c’è un resoconto del comandante partigiano Guerino Franzini, pubblicato a cura dell’Anpi di Reggio Emilia nel 1982, in cui c’è una sezione specifica dedicata ai canti partigiani e lì non c’è “Bella ciao”; nonostante si dica che sia nata proprio tra i partigiani di Reggio Emilia».
Quale conclusione?
«Quindi, come si vede, qualunque tradizione orale contrasta con quelli che sono i resoconti scritti. Tutte le raccolte di canti, di ballate eccetera eccetera sono logicamente raccolte in base alla tradizione orale. Ma, guarda caso, questa tradizione orale non viene fuori prima del 1964, quando c’è il grande lancio di “Bella ciao” al Festival di Spoleto».
A proposito di Giorgio Bocca, maestro di giornalismo indipendente, vogliamo chiudere la puntata di oggi con un omaggio nei suoi riguardi, tratto da un’intervista che lo stesso Bocca rilasciò per un progetto formativo. Ecco che cosa il giornalista disse del lato distruttivo del progresso. Buon ascolto e a risentirci. «Le forze in campo sono quelle: da una parte, la vitalità della specie umana e la sua capacità di adattarsi, di cambiare, di resistere a tutti i mutamenti; dall’altra, questo progressivo andare verso la distruzione, perché una delle scoperte che abbiamo fatto in quest’epoca è che il mondo è finito e non è infinito come pensavamo che fosse. L’abbiamo scoperto in questi anni, perché 50 anni fa, nessuno di noi pensava che, per esempio, l’acqua fosse un bene che si sarebbe consumato, che sarebbe mancato. Nessuno di noi pensava che l’aria potesse essere inquinata, avvelenata. Nessuno di noi pensava minimamente che un fiume come il Po sarebbe stato praticamente avvelenato dalla sorgente alla foce. Quindi ci sono molte scoperte, che ha fatto l’uomo contemporaneo, che non sono scoperte piacevoli». (redazione@corrierecal.it)
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