REGGIO CALABRIA Il dominio della cosca Alvaro nelle mani di Domenico Alvaro (classe ’81). Figlio di Giuseppe Alvaro (cl. ’43) noto come u “Trappitaru”, considerato unitamente ai fratelli Carmine (cl. ’53) e Nicola (cl. ’46), il principale esponente del ramo Alvaro “Carni i cani”. È una figura, quella di Domenico “Zi Micu” Alvaro, ben delineata nelle intercettazioni tra due indagati nell’inchiesta “Fata Verde” della Dda di Reggio Calabria, che ha portato all’arresto di 11 persone, 14 in totale gli indagati coinvolti nella coltivazione, produzione, commercializzazione e traffico illecito di cannabis.
Definito addirittura “Re dell’Aspromonte”, Domenico Alvaro viene indicato come colui che «comanda» il clan e descritto come un uomo «senza scrupoli» in materia di affari.
Il giro illecito di cannabis si svolgeva tra i comuni reggini di Sinopoli, Sant’Eufemia d’Aspromonte, Taurianova, San Procopio, Candidoni, coinvolgeva anche Lamezia Terme, e aveva al vertice proprio Domenico Alvaro e Vincenzo Violi. «L’organizzazione – hanno ricostruito gli investigatori – era in grado di riorganizzarsi rapidamente anche nei casi in cui, come effettivamente avvenuto, una parte dei sodali veniva coinvolta in altre indagini di rilievo, come nel caso più rilevante di Domenico Alvaro, arrestato nell’ambito dell’operazione “Eyphemos” della Dda di Reggio Calabria, oppure nel caso in cui le aree in cui decidevano di effettuare la coltivazione illecite venivano scoperte e sequestrate dalle forze dell’ordine, come accaduto per la prima piantagione di canapa di Lamezia Terme.
Parte dei proventi era destinata alla cosca di ‘ndrangheta Alvaro, rappresentata proprio da Domenico Alvaro, a lui il sodalizio doveva dare conto anche dei mancati guadagni. Sono molteplici le conversazioni in cui il gruppo criminale fa riferimento alla cosca di Sinopoli, sia per assicurarsi di agire indisturbati in una zona criminale, il lametino, che, pur non immediatamente rientrante nel loro dominio era sottoposta al suo protettorato, sia e soprattutto per sfruttare i canali di vendita degli stupefacenti prodotti che la consorteria poteva vantare e, in tal modo, oltre a favorire i traffici illeciti del clan, avere la garanzia di ottenere rapidamente i proventi illeciti delle coltivazioni. «Tutti i soggetti – rileva il gip – a cui è imputato il reato associativo sanno bene di avere a che fare con la cosca Alvaro e ne discutono in più occasioni tra loro».
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«Vedi che loro sono i più potenti la che mancu li cani Signuri». «Ma Vincenzo e Mico, tutti e due? O solo Zi Mico?». «No, Vincenzo solo fa parte… Vincenzo è della cosca Alvaro, capito? Hai capito? Lui (inteso Alvaro Domenico ndr) adesso comanda là, lui comanda là (…) perché sono tutti arrestati quegli altri (…) il dominio ce l’ha lui la».
A parlare in una conversazione captata dagli investigatori sono Carmine Barone, per l’accusa incaricato al «coordinamento dei lavori delle coltivazioni illecite» e Marcello Spirlì, che «coordinava i lavori e gli aspetti relativi alla sorveglianza dell’area della piantagione». E Domenico Alvaro veniva descritto proprio da Spirlì come il soggetto che «comanda» la cosca perché tutti gli altri in quel momento erano in carcere. E ne delinea anche il carattere, descrivendolo come «una persona senza scrupoli capace di portare un’arma con sé per sparare a chi non si fosse comportato secondo le regole dettate per le coltivazioni illecite, riporta il gip nell’ordinanza. «(…) ho detto che lo zio Mico viene e di stare tranquillo che si porta la pistola e li spara a tutte e due… fa una fossa e li sotterra li, anzi li getta in pasto al maiale, eh. Perché per il tipo che é lo zio Mico, se sa queste cose qua…».
«Se volete soldi dominiamo noi. Com’è il mercato… si deve lavorare dal primo fino a… il mercato lo dominiamo noi…». I rapporti ormai stabili e consolidati della cosca Alvaro nel mercato illegale degli stupefacenti avrebbero garantito, anche per la marijuana ricavata dalla piantagione di Lamezia Terme, il piazzamento immediato della droga sul mercato e il pagamento con denaro contante della quota spettante ad ogni soggetto coinvolto, cosi come pattuito. Difatti, – si legge nelle carte dell’inchiesta – «Spirlì asseriva che il mercato lo avrebbero dominato loro (lui, Alvaro e Violi ndr), vendendo la sostanza stupefacente a tranche di 50/100 chilogrammi alla volta, in modo che un eventuale controllo e sequestro delle forze di polizia, non avrebbe causato la perdita dell’intera partita. «(…) se noi abbiamo cinquanta chili cento chili pronti, la prendiamo e la cacciamo a mano a mano, andiamo e glielo diciamo e loro vengono e se la prendono, tra dieci giorni quanto ne abbiamo altri cento? Altri ottanta, altri novanta, che vengano a prendersela, mangiando mangiando viene l’appetito caro mio».
Ed elogiando la potenza criminale della famiglia Alvaro, Barone asseriva che i nuovi soggetti coinvolti nella piantagione in divenire si fossero presentati a nome di «Mico e dei suoi fratelli», considerati «i numeri uno»: Domenico Alvaro sarebbe indicato come “Re dell’Aspromonte” e il fratello maggiore, di circa cinquant’anni, come «il capo cosca degli Alvaro assoluto… e il padre di Mico, il padre di Mico ha ottanta anni, mammasantissima…». (m.ripolo@corrierecal.it)
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