VIBO VALENTIA Una riunione segreta, con pochi invitati eccellenti, per definire le prossime mosse. Le recenti stragi di Capaci e di via d’Amelio avevano portato via i due giudici simbolo della lotta a Cosa Nostra, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e il Paese si trovava in una fase di assoluta incertezza, sconvolto da due omicidi eccellenti compiuti nel giro di poche settimane, mettendo in ginocchio lo Stato.
È l’estate del 1992 e “Cosa Nostra”, forte dei successi ottenuti, ha come obiettivo quello di alzare ulteriormente la posta in palio, colpendo (come è noto) poi altri obiettivi nel resto della Penisola. Nel frattempo, è ancora luglio, cerca alleati in Calabria.
L’occasione è un incontro organizzato proprio nella nostra regione, a Nicotera Marina, regno incontrastato della ‘ndrangheta e della già potente cosca Mancuso di Limbadi. A fare da cornice la struttura turistica “Sayonara”, dove gli esponenti del clan e i loro sodali di muovevano senza problemi. Una struttura ricettiva considerata storicamente «della cosca Mancuso», luogo sicuro e protetto nel quale esponenti criminali «hanno soggiornato nei periodi di latitanza e hanno svolto in tutta tranquillità anche veri e propri summit mafiosi». A scriverlo nero su bianco sono stati gli inquirenti della Distrettuale antimafia di Catanzaro nell’inchiesta “Imperium”, confluita nel maxiprocesso “Maestrale” ora di scena in aula bunker a Lamezia Terme, davanti ai giudici del Tribunale collegiale di Vibo Valentia.
Sin dagli anni ’90 il “Sayonara” di Nicotera Marina ha rivestito «un particolare interesse poiché considerato storicamente come la struttura ricettiva della cosca Mancuso, luogo sicuro e protetto nel quale esponenti criminali hanno soggiornato nei periodi di latitanza e hanno svolto in tutta tranquillità anche veri e propri summit mafiosi». Il forte legame tra la famiglia Mancuso di Limbadi e la struttura, così come scrivono i pm nel decreto di fermo, è avvalorato anche da una perquisizione domiciliare avvenuta oltre 10 anni fa. È, infatti, il 28 marzo 2013 quando il personale della Squadra mobile di Vibo Valentia e di Catanzaro fa irruzione nel domicilio della frazione Marina di Nicotera dopo l’arresto del boss di ‘ndrangheta Pantaleone “Scarpuni” Mancuso (cl. ’61), avvenuto il 7 marzo, estese anche ad un immobile in Corso Umberto I. In quella circostanza fu ritrovata una copiosa documentazione di natura extra contabile tra cui gran parte riguardante proprio la gestione del Villaggio Sayonara le cui risultanze sono state acquisite agli atti. Un foglio A4 dattiloscritto suddiviso in tre distinte colonne nelle quali separatamente e per ogni singola riga, erano stati annotati: nominativi di persone fisiche e/o giuridiche, per un totale di n. 38; – il relativo importo di riferimento, per un totale complessivo di 669.600 euro, erroneamente indicato per 711.100 euro e, infine, note esplicative per ciascun nominativo.
«Venne a Cosenza un nipote di Luigi Mancuso, Pantaleone Mancuso, e mi disse che mi voleva parlare Luigi a Limbadi (…) chiamai uno vicino a me, un certo Umile Arturi… ci siamo messi in macchina e siamo andati a Limbadi…». Questo è il racconto di Franco Pino, esponente della criminalità cosentina, poi collaboratore di giustizia, i cui racconti sono finiti al centro dell’inchiesta sulla “’ndrangheta-stragista” della Distrettuale antimafia di Reggio Calabria. «(…) allora abbiamo trovato il nipote di Luigi e ci ha detto di andare tutti al campeggio Sayonara. Era un luogo turistico a Nicotera, non lo so se era di proprietà dei Mancuso, però si muovevano tranquillamente in quell’ambito…» racconta ancora Pino. Una volta arrivato lì, sempre secondo il racconto finito agli atti e nelle motivazioni della sentenza d’appello «(…) c’era Nino Pesce, c’era anche una persona, un calabrese che abitava a Milano, però io non lo conoscevo e mi fu presentato, un certo Franco Coco Trovato, così si chiamava. E c’era anche il genero di questo Coco Trovato. Mi sembra che si chiamava Giuseppe De Stefano. E c’era ovviamente Luigi Mancuso…». In quella circostanza, dunque, Nino Pesce, parlando a nome dei Piromalli, aveva affermato che i siciliani avessero chiesto ai calabresi di partecipare all’offensiva contro lo Stato perché «conveniva a tutti aderire a quella proposta se volevano impedire inasprimenti legislativi, non ricordando il collaboratore se vi fosse qualcuno dei Piromalli a quella riunione», si legge ancora.
In quel famoso incontro del ’92 al “Sayonara” i siciliani, però, non c’erano ma sarebbero stati Nino Pesce e Franco Coco Trovato a parlare per loro. Un «ragionamento riportato» secondo il pentito Pino, «qualche ragionamento fatto a monte, fatto prima di sederci a tavola. Erano cose che già avevano discusso per fatti loro…». La proposta dei siciliani, portata dai Brusca per conto di Totò Riina e sottoposta agli ‘ndranghetisti calabresi, era chiara: colpire e assaltare obiettivi istituzionali o più semplicemente stazioni dei carabinieri, «si voleva ottenere praticamente di sovvertire lo Stato e… praticamente mettere con le spalle al muro lo Stato e costringerlo a una trattativa…». La riunione al lido Sayonara era durata fino al pomeriggio e sia quel giorno che in seguito in altre tre o quattro occasioni, lo stesso Pino avrebbe avuto modo di discutere dell’argomento con Luigi Mancuso, il quale gli avrebbe detto che non era d’accordo a schierarsi contro le Istituzioni e contro i Carabinieri. In buona sostanza il boss «non ha mai condiviso una guerra aperta contro le istituzioni», anche perché, in quella precisa fase storica, Luigi Mancuso vedeva quella proposta come qualcosa che non sarebbe stata utile. La criminalità calabrese, infatti, all’ombra delle stragi di Cosa Nostra e dei Corleonesi prosperava e aveva costruito «buoni contatti per sistemare i processi», si legge ancora nelle motivazioni. Al termina di quell’incontro al “Sayonara” la proposta non fu votata. Ma, come raccontato dallo stesso Pino, nonostante la ‘ndrangheta cosentina rappresentata da lui non fosse favorevole, avrebbe comunque dovuto accodarsi alla “’Ndrangheta calabrese” o la “Calabria ‘Ndranghetista”. «(…) se Luigi Mancuso m’avesse detto: “senti, qua i Piromalli aderiscono, Pesce aderisce, io sono con Pesce e Piromalli e aderisco anche io”, io avrei aderito. A malincuore, ma avrei aderito anche io».
La storia recente del “Sayonara” è stata ricostruita dalla Dda. La proprietà immobiliare, a conclusione di una procedura fallimentare, venne rilevata da Giuseppe Fonti, ora a processo in “Maestrale”, così come altre due figure importanti per la storia della struttura turistica: Agatino Conti e Francesco Rapisarda, anche loro a processo. A loro due, infatti, sarebbe stata affidata la società solo due mesi dopo l’arrivo di Fonti e su «input di Luigi Mancuso». Elementi in tal senso li ha forniti Pasquale Megna, collaboratore di giustizia e figlio di Assunto, noto imprenditore del settore ittico, cognato del boss “Scarpuni” perché sposato a una sorella di Santa Buccafusca. Quest’ultimo, in particolare, avrebbe avuto sempre un «forte interessamento verso una particolare struttura ricettiva: il Villaggio Sayonara di Nicotera Marina, sino al 26.08.2009 gestito dalla società Sayonara S.r.l. dichiarata fallita in quella data dal Tribunale di Vibo Valentia». La compagine societaria che amministra la struttura porta dritta al clan Mancuso e in particolare a Luigi, “Crimine” per la provincia di Vibo Valentia e capo della locale di Limbadi, il “Supremo”. (g.curcio@corrierecal.it)
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