REGGIO CALABRIA «Il negozio è a posto. Abbiamo montato tutto, le insegne, tutto bene». In realtà non era un negozio, ma un’area adibita alla coltivazione di piante di canapa. Quattordici serre 9×40 metri ciascuna. A costruirle, con una lavoro di squadra, gli indagati dell’inchiesta “Fata Verde” della Dda di Reggio Calabria. L’area sarà oggetto di controlli e saranno le intercettazioni e le immagini catturate dalle telecamere installate a permettere agli investigatori di ricostruire il giro illecito di coltivazione, produzione, commercializzazione e traffico illecito di cannabis che si svolgeva tra i comuni reggini di Sinopoli, Sant’Eufemia d’Aspromonte, Taurianova, San Procopio, Candidoni e che coinvolgeva anche Lamezia Terme. Al vertice c’erano Domenico Alvaro, “zi Mico”, e Vincenzo Violi. Parte dei proventi era destinata alla cosca di ‘ndrangheta Alvaro, rappresentata proprio da Domenico Alvaro, a lui il sodalizio doveva dare conto anche dei mancati guadagni.
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All’interno del terreno su cui sarebbe stata innestata la piantagione illecita sono stati identificati diversi indagati, tra loro Marcello Spirlì e Carmine Barone – addetti al coordinamento dei lavori – Violi e Alvaro. Gli incontri, si legge nelle carte dell’inchiesta, come emergerà dalle conversazioni captate erano «finalizzati a definire le condizioni e i termini per la realizzazione della piantagione». Le immagini estrapolate consentono di inquadrare chiaramente Domenico Alvaro (cl ’81), figlio di Giuseppe Alvaro (cl. ’43) noto come u “Trappitaru”.
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«Tutti i soggetti ritratti nelle aree monitorate – si legge nell’ordinanza di applicazione di misure cautelari – contribuivano alle attività necessarie alla realizzazione della piantagione, talvolta affiancandole alle attività agricole ordinarie, finalizzate alla coltivazione di prodotti (verdure, ortaggi). Difatti la gran parte dei soggetti impiegata in area di serra svolge l’attività di agricoltore per professione, quindi sono in grado di apportare un contributo tecnicamente qualificato alla coltivazione e produzione della canapa». In soli pochi giorni, con «un lavoro di squadra e continuativo», il gruppo riesce a predisporre le aree di serra con l’apposizione di teloni di copertura e reti ombreggianti, potendo così disporre di 14 (quattordici) serre, della lunghezza di circa 9×40 metri ciascuna. Gli indagati erano molto attenti e durante la permanenza all’interno dei luoghi della piantagione, di comune accordo, evitavano l’uso del telefono. Ma in una conversazione sarà Barone a parlare di un lavoro che definisce «allucinante».
Al telefono Barone parla con una donna proprio della costruzione delle serre e della piantagione, mediante l’utilizzo di frasi e parole figurate che nascondevano pero riferimenti chiari. «Con il termine “negozio” indicava la piantagione, mentre per i lavori da svolgere al suo interno utilizzava termini quali “arredamento e sistemazione delle vetrine” ed, infine, per la fase di raccolta della canapa faceva uso di termini quali “inaugurazione”. Nell’occasione riferiva quali fossero gli step e i giorni necessari alla conclusione del lavoro». Un linguaggio criptico che tuttavia veniva tradito «dal fatto che non venivano indicati altri elementi per individuare specificatamente il fantomatico negozio e che le indicazioni circa i relativi sviluppi erano accompagnata da termini quali “sono molto impaurito”»: «Il negozio è a posto. Abbiamo montato tutto, le insegne, tutto bene. Ringrazio Iddio i primi quindici giorni, è stato alla grande, na cosa allucinante, Ho tornato a fumare». «Ti giuro, sì. Non ce la faccio, l’ansia, è terribile, è terribile, è terribile, è terribile, è terribile, è terribile, è terribile» E ancora: «Sono molto stressato, molto impaurito, moltooo annoiato, molto tutto, molto. È un lavoro allucinante, non esiste una cosa del genere, perché è un negozio grandissimo, è 1500 metri quadri». (m.ripolo@corrierecal.it)
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