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‘Ndrangheta, l’affare coi Casamonica e i rapporti “tesi” con Accorinti. Il pentito: «Peppone voleva uccidermi»

In aula bunker il racconto del pentito classe ’64 di Ionadi. «Loro usano le persone e poi le ammazzano, fanno sempre così»

Pubblicato il: 17/08/2024 – 17:31
di Giorgio Curcio
‘Ndrangheta, l’affare coi Casamonica e i rapporti “tesi” con Accorinti. Il pentito: «Peppone voleva uccidermi»

LAMEZIA TERME «Collaboro dal gennaio, febbraio 2005. Ho scelto di farlo perché c’erano dei problemi che gravavano sulla mia famiglia e su di me. Ho avuto paura, girava la voce che mi volevano uccidere. Lavoravo per delle famiglie, con gli Accorinti di Zungri e con Giuseppe e Ambrogio Accorinti, C’era all’epoca anche Raffaele Fiamingo, che poi è stato assassinato pure, con tante persone, però chi era che mi voleva far del male era Giuseppe Accorinti, la famiglia Accorinti insomma».
A parlare davanti ai giudici del Tribunale collegiale di Vibo Valentia è Angiolino Servello, classe ’64 di Ionadi, collaboratore di giustizia chiamato a deporre nel processo “Maestrale-Carthago” nato dall’inchiesta della Distrettuale antimafia di Catanzaro. In aula bunker, interrogato dalla pm del pool antimafia Annamaria Frustaci, ha iniziato ad illustrare il suo percorso di collaborazione con la giustizia, ma anche i dettagli legati ad alcuni degli imputati nel processo.

La scelta

«Sono entrato in contatto con la famiglia Accorinti, la conosco da tanti anni, da circa quarant’anni, però sono entrato in contatto per affari di droga nel 1999» ha spiegato ancora Servello «ci siamo incontrati con Ambrogio Accorinti nel carcere di Vibo Valentia. Una volta usciti, sempre nel 1999, abbiamo ripreso gli accordi, ci siamo visti fuori e abbiamo iniziato a lavorare con la droga». Poi l’incontro con il fratello, Peppone Accorinti. «Sono andato a trovarlo con Ambrogio in quanto Peppone era latitante, io ho visto una campagna, non so giustamente indicarle il posto, perché non me lo ricordo preciso, e siccome già ci conoscevamo, all’epoca era amico di mio fratello. Anche con lui abbiamo intrapreso, una volta che era libero, gli affari di droga, io, lui e Raffaele Fiamingo». E ancora: «Ci siamo visti a Mesiano di Filandari tutti e tre, con un quarto complice, che era di San Giovanni, Rocco Cristello, stava a Milano, e da lì è partito il traffico di droga, di cocaina, che abbiamo fatto con Peppone Accorinti e con Raffaele Fiamingo, dove io mi occupavo principalmente della vendita».

Gli affari legati alla droga

Nel corso della sua deposizione, il collaboratore di giustizia ha illustrato i dettagli legati proprio al traffico di droga. «Loro si occupavano di darmi la cocaina e io della vendita, avevo un grosso giro su Roma, e così è stato, andavamo avanti a fare questo lavoro». Poi l’assassinio di Fiamingo fece incrinare i rapporti. «Ci siamo un po’ persi con Accorinti, perché stava giù, vedendo un po’ la situazione del suo amico che l’avevano ucciso. Io lavoravo lo stesso, andavo sempre a nome suo perché io questo Cristello non lo conoscevo, l’ho conosciuto tramite loro. Andavo lì, gli dicevo “dammi dieci chili di cocaina, dammi venti chili di cocaina”, quello che mi occorreva, prendevo e andavo via, e così via».

La “questione” Casamonica

E ancora: «Abbiamo avuto un intreccio con la famiglia Casamonica su Roma, dove io vendevo cocaina anche grossi quantitativi, a livello di dieci, quindici chili, e c’era un sospeso da recuperare in soldi. Questi allungavano, allungavano, allungavano i tempi però Peppone dice: “No, andiamo tutti, ci facciamo dare i soldi, andiamo, li ammazziamo, facciamo”, e lì c’è stato un po’ di battibecco tra me, tra lui, tra questo Casamonica e via dicendo» ha spiegato ancora il pentito. Questo episodio, secondo il pentito Servello, aveva fatto incrinare i rapporti con Peppone Accorinti. «Ricordo che dopo un po’ ci hanno arrestato tutti e con lui ci siamo ritrovati nel carcere di Vibo e, durante i colloqui, l’ho visto un po’ freddo, mi parlavano male dando quasi ragione ai Casamonica, tipo che lui aveva pagato la parte della droga, invece non era vero niente». Poi, secondo il racconto del pentito «mia moglie che veniva a colloquio diceva che mi volevano ammazzare in carcere, già giravano delle voci, e così ho deciso di collaborare con la giustizia». Poi lo sfogo di Servello: «Le fanno queste cose, loro lavorano così, loro usano le persone e le ammazzano. Io collaboro da vent’anni e collaboro di fronte al mondo intero, così, apertamente, loro invece sono peggio dei collaboratori, sono degli infami che usano le persone e le ammazzano». (g.curcio@corrierecal.it)  

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