Si vedono in fondo, sulla linea blu madonna dove finisce il mare antico, talatte mostro e padre, nuvole a pecora, basse sopra l’orizzonte. Bestie da fatica, carne e latte, immenso gregge ormai transumato, piccole chiocce messe in fila, che l’Ostro spinge al nord. L’Austro si presenta puntuale, sul finire d’agosto, porta tempeste che annunciano l’autunno, una beffa che dura poco, poi l’estate torna a imperversare, cavalcando settembre e ottobre. E’ un vento caritatevole il Noto, rende meno triste il ritorno spargendo il grigio sul mondo che si lascia per uniformarlo a quello in cui si va, abbrevia gli addii e asciuga le lacrime, chiude le porte del viaggio. E l’estate finisce, i calabresi partono così, se li porta via il vento, fra le promesse di un ritorno che sarà per sempre e invece non ci sarà quasi mai, e la certezza di case anonime di periferia, di fiati fumanti nel freddo, di vite in attesa, di andate lunghe e rientri brevi, partenze ininterrotte per rinnovare ogni volta il dolore dell’addio. E’ melodramma, retorica, letteratura sorpassata e consolatoria. Ma è un pianto a ogni estate per i tanti che vanno e i pochi che restano e prima o dopo andranno o sono già andati in una vita precedente. E’ la Calabria delle valige sempre pronte, delle corriere di terza classe, delle macchine stipate, che anche senza i bastimenti di un tempo è una umanità in travaglio e transumanza. La personificazione di Odisseo. Avremo peccato tanto in passato e ora peniamo in un viaggio che appare infinito. I calabresi di agosto, tanti, sono quelli non riusciti, che ci riempiono la testa di cose mirabolanti che esistono solo nella loro testa. I calabresi partiti per forza e che rientrano non avendo altra scelta sono come le foglie d’autunno, se li porta via il vento.
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