Camminavamo veloci, i mastri facevano rimostranze alla Madonna di Porzi, alludevano a dubbi sull’Ecce Homo e chiedevano miracoli alla Palma di Sant’Agata. L’acqua che prima ci stava in corpo ce la portavamo come peso inzuppata agli zaini incollati alle spalle. I chilometri erano poco più di dieci ma sembravano gli anni luce di cui parlavano quelli che avevano le scuole, da mastro Carlo il barbiere, nelle domeniche di dicembre che stavano addosso al Natale, e bisognava presentarsi in chiesa a posto con l’aspetto e la coscienza. Andavamo ad Africo, che se ne stava in una galassia di mondi immaginari che nemmeno con le erbe più strane dell’Amazzonia si sarebbe potuto raccontare: Il paese delle tenebre dove la meraviglia dell’elettricità non era ancora giunta e la luce si faceva con la teda, una scheggia di pino resinosa rubata agli alberi delle cime più in alto dell’Aspromonte. I Cucchi li chiamavano o i Sambali, quelli di Africo, perché cinici come i piccoli del cuculo e induriti come il cuoio: anime nere in giro nella notte a razziare armenti e col coltello alla cinta pronto a sfregiare la faccia. Avevo quindici anni, troppo pochi per conoscere la paura vera, arrancavo dietro mastro Costanzo l’ultimo della fila cercando di non perderlo, invece di mettere le suole al contrario e tornare di corsa da mia madre. Il primo viaggio senza mio padre, non avrei abbandonato l’impresa neanche mi avessero detto che stavamo andando all’inferno. Per quanto bruti, quelli di Africo, sempre uomini erano, forse, e il filo, per un verso o per un altro, glielo si sarebbe potuto prendere. Discendemmo la costa cruda di un monte e ne risalimmo uno imboscato di lecci, teso, quasi verticale: la salita di petto, spiegavano i mastri ansimando, che davvero si saliva col petto che sfiorava la terra. Più ci avvicinavamo ad Africo più brutte erano le storie che i miei compagni raccontavano: di corpi fatti a pezzi, di membra messe sotto sale come le scorcitte del maiale. Di fegato e cuori piastrati e mangiati, fegato e cuori dei nemici. E che se ne fanno delle case che gli andiamo a costruire? Mi veniva da dire, se sono bestie gli basteranno le grotte. Ma le parole me le tenevo in bocca, i muratori sono gente vazzana, più strani degli zingari, ed io ero l’ultimo della covata, in agguato ci poteva sempre essere la presa in giro. Le storie e le parole più orribili volavano nell’aria, io camminavo più veloce ancora sapendo che andavo a infilarmi in un buco nero, dentro Cent’anni di storie che l’Aspromonte mi avrebbe messo in mano. Dentro Cent’anni in cui sarei stato solo con i fantasmi di una realtà impossibile da immaginare e con la prova certa che gli alieni stanno sulla terra già da un po’.
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