ROMA I turisti affollano le strade principali della città eterna, la vita scorre tra shopping nelle vie lusso, visite ai monumenti, selfie al Colosseo mentre in periferia, lontano da occhi indiscreti, si annodano trame nere tessute dalla criminalità organizzata calabrese, da quella albanese e della cosiddetta “Camorra romana” retta da uomini nati in Campania e poi trasferitisi nella Capitale. Gli intrecci mafiosi a Roma, le strade riempite di droga, i negozi utilizzati come lavatrici per ripulire i soldi sporchi hanno occupato anche i cronisti di Report, impegnati a ricostruire gli affari e gli interessi delle cosche attive nel “Grande raccordo criminale”. Non solo Roma. La mala calabrese avrebbe allungato i tentacoli tentando di infiltrarsi anche nei comuni di Anzio e Nettuno.
Tutti gli ingenti proventi frutto di attività illecite devono essere ripuliti. E’ chiaro ed evidente che lavare i soldi sporchi da reimmettere nel mercato sotto forma di investimenti, non sia un’operazione semplice. Così come non è scontato invadere il territorio nel quale insiste un determinato clan criminale, senza pestare i piedi al boss di turno. Per regolare questo equilibrio destinato altrimenti a diventare precario, i gruppi della mala avrebbero stretto un patto non scritto, di non belligeranza e di pubblica utilità. I giornalisti del Sole 24 Ore, Ivan Ciammarusti e Sara Monaci, ritengono che la stretta di mano serva a far confluire tutti i guadagni in quella che viene definita la “Lavanderia Capitale”, «un sistema di riciclaggio a consumazione prolungata in cui giocano un ruolo criminalità romana, faccendieri, professionisti e imprenditori ». Una sorta di mondo di mezzo all’interno del mondo di mezzo, con «una potenziale capacità di muovere più di milione di euro al giorno».
Da quanto emerge dal lavoro dei cronisti, la “Lavanderia Capitale” rappresenterebbe un meccanismo assai complesso all’interno del quale gravitano fatture false e operazioni fantasma poi confluite in una “banca nera”. «Da qui escono finanziamenti a disposizione delle imprese conniventi». Il sistema creato favorirebbe il finanziamento del sommerso d’azienda. «Liquida in nero i fornitori, paga la manodopera irregolare e può incentivare forme di corruzione», l’azienda collusa riceve fatture da società fantasma e versa danari per finte operazioni o consulenze mai svolte «per un ammontare pari ai fondi sporchi ricevuti». Un labirinto oscuro reso invisibile alle forze dell’ordine.
La Dia ritiene che «l’innovativo sistema di frode ai danni dello Stato presuppone il verificarsi di due condizioni essenziali: un’ingente liquidita economica che sarà raccolta con il conferimento della provvista originata dalle famiglie criminali e la partecipazione di funzionari conniventi che concorrono per assicurare l’apparente legittimità delle operazioni». (f.b.)
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