CATANZARO Un processo, imputati illustri. In un tempo ormai dimenticato, molti elementi di spicco di “Cosa Nostra” sfilarono in Corte d’Assise a Catanzaro. Era la fine degli anni ’60, circa 25 anni dopo sarebbe arrivato il sanguinoso periodo delle stragi, quella di Capaci e quella di Via D’Amelio. La guerra allo Stato, ai giudici Falcone e Borsellino e il maxi processo impreziosito dalle voci dei primi pentiti, “traditi” dalla deriva di Cosa Nostra segnata dall’avvento dei Corleonesi impegnati a seminare morti ammazzati per le strade, senza risparmiare donne e bambini. Un patto d’onore tradito secondo Masino Buscetta (nella foto Ansa in copertina), il boss dei due mondi che al giudice Giovanni Falcone racconta in quasi 400 pagine di verbale, le atrocità commesse dai boss dei mandamenti siciliani, quelli ordinati dal capo della cupola, della sete di potere di Totò Riina. «Non sono un pentito», Buscetta avrà modo di sottolineare più volte nel corso dei colloqui con il giudice, impegnato a riempire i fogli bianchi scrivendo a mano i racconti del pentito. Che definiva traditori i suoi vecchi compari, colpevoli a suo dire di aver dimenticato le “norme” contenute nello storico codice criminale. «L’avverto, signor giudice. Dopo questo interrogatorio lei diventerà una celebrità. Ma cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. E con me faranno lo stesso. Non dimentichi che il conto che ha aperto con Cosa nostra non si chiuderà mai. È sempre del parere di interrogarmi?», Masino si rivolse a Falcone. Il pentito morirà in Florida nel 2000.
Prima di quei confronti e delle rivelazioni dei segreti inconfessati e inconfessabili di Cosa Nostra, Tommaso Buscetta figurava tra gli imputati chiamati a rispondere in un processo celebrato in Calabria, dinanzi la Corte d’Assise di Catanzaro. Il procedimento si concluse il 22 Dicembre 1968, alla sbarra 117 uomini d’onore delle cosche della città di Palermo. Vennero quasi tutti assolti ad eccezione di Angelo La Barbera, Pietro Torretta, Salvatore Greco e proprio Tommaso Buscetta.
Le motivazioni della sentenza restituirono una ricostruzione della mafia palermitana non inquadrata come un’associazione organica, gerarchica e centralizzata, ma «come un complesso di fatti ed individualità tra loro indipendenti e dunque non inseribili all’interno dello stesso calderone a livello giuridico». L’idea dei giudici di Catanzaro – come si legge in una relazione presentata nel corso della XIV legislatura del Governo – era quella dell’esistenza di una «galassia di molti gruppi criminali indipendenti che si muovevano sullo sfondo di una cultura individualista e assai negativamente reattiva nei confronti dello Stato». Si parlava di generale illegalità del tessuto sociale siciliano pronto a coprire l’occulta struttura mafiosa che finiva per restare del tutto incomprensibile con gli strumenti interpretativi del tempo. La difficile comprensione dell’agire mafioso dei siciliani rappresentò una delle ragioni della mancata «produzione di un quadro legislativo più aderente alle specifiche strutturali ed operative del contesto criminoso». Quel procedimento celebrato nella palestra dell’istituto statale Pascoli-Aldisio (per la legittima suspicione di intimidazioni e ritorsioni nei confronti dei testimoni), produsse l’effetto – secondo quanto emerge dai rapporti – di conferire «più rinnovato prestigio ed autorità a quanti ne erano usciti indenni». Da ricordare che presidente della Corte fu Carnovale, giudice a latere Gallerano, l’accusa invece venne sostenuta da Bruno Sgromo che tenne una requisitoria di 15 giorni. (f.b.)
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