REGGIO CALABRIA Tre colpi di fucile che squarciarono il silenzio di un calda giornata di fine estate. Così Fortunato La Rosa morì a 67 anni, mentre nella tarda mattinata dell’8 settembre 2005 percorreva la strada di montagna tra Gerace e Canolo, nel Reggino, a bordo della sua auto per rientrare a casa. Un delitto efferato che coinvolse un uomo che ebbe il coraggio e la fermezza di denunciare i soprusi di chi sul territorio spadroneggiava e dettava legge secondo le regole della ‘ndrangheta.
Stimato medico oculista in pensione, La Rosa si stava dedicando alla coltivazione delle sue terre. Vasti terreni agricoli che venivano sistematicamente invasi da parte di capi di bestiame di proprietà di una cosca di ‘ndrangheta. La Rosa aveva prontamente denunciato il fenomeno delle cosiddette “vacche sacre”. Solo qualche tempo dopo l’omicidio studiato nei dettagli e che si consumerà in prossimità di una curva: La Rosa viene raggiunto in località Bruvarello del Comune di Gerace e ucciso a bruciapelo da killer armati di fucili calibro 12 caricati a pallettoni. Dopo dieci anni di indagini e di interrogativi, nel marzo 2015 i carabinieri arrestano due persone accusate di essere stati mandanti dell’omicidio del medico oculista: Giuseppe Raso, considerato uno dei capi dell’omonimo gruppo criminale, e Domenico Filippone. L’accusa nei loro confronti è di omicidio volontario, aggravato dalle modalità mafiose e dalla premeditazione. Accuse che cadono un mese dopo, quando ad esprimersi è il Tribunale della Libertà di Reggio Calabria che ne riconosce «l’infondatezza».
Il medico fu ucciso per «punizione». Gli investigatori motivarono così il delitto. Tra tante domande sembra esserci un’unica certezza: La Rosa si era opposto con fermezza alla spavalderia dei clan riuscendo a bloccare un sistema di soprusi che era reso possibile dall’omertà di chi subiva silenziosamente. L’omicidio, perpetrato con modalità tipicamente mafiose, sarebbe dunque legato a una vera e propria vendetta. Una pista avvalorata nel 2017 dalle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, Domenico Agresta, che, senza fare nomi, dichiara: «A.C. mi ha parlato anche dell’omicidio La Rosa dicendomi che questo dottore (mi pare fosse un oculista) aveva avuto con due persone dei problemi, (svariate volte) per un terreno del posto dove abitava lui (forse aveva fatto una denuncia per questo), che queste persone gli facevano “abusi”». Un verbale pubblicato sulla Gazzetta del Sud in cui il collaboratore puntualizza: «Queste persone si sono rivolte ai Cordi, i quali alla fine gli avevano suggerito di tirare due fucilate a questo dottore; C. non mi disse i nomi di queste due persone, ma erano del paese, forse Canolo».
E oggi, a distanza di diciannove anni, l’omicidio di La Rosa sembra avere un movente certo, ma per la Giustizia non un colpevole. Una verità negata che la famiglia e la vedova del dottore, Viviana Balletta, hanno continuato e continuano a chiedere. Una lotta che va avanti, mentre la Locride non dimentica, attraverso la borsa di studio intitolata al dottore e destinata agli studenti finalizzata alla promozione dell’impegno sociale antimafia e alla lotta ai fenomeni criminali.
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