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L’ALFABETO

Da Anfore a Zibibbo, tutto quello che dovreste sapere sul vino calabrese

Le origini della viticoltura, il fermento del settore tra grandi e piccole aziende, le sfide non facili e le storie di successo

Pubblicato il: 01/09/2024 – 14:11
di Eugenio Furia
Da Anfore a Zibibbo, tutto quello che dovreste sapere sul vino calabrese

ANFORE

La Enotria Tellus rivive in alcune realtà uniche nel loro genere: l’acrese Francesco Gabriele Bafaro è un combattivo under 40 laureato in archeologia classica nonché fondatore della cantina archeo-enologica Acroneo. «Archeologia sperimentale» che si basa su un design delle anfore unico: si tratta di pezzi che non si trovano in commercio, perché frutto di personali ricerche di Bafaro per ripercorrere l’antico processo di vinificazione (vai alla lettera T).

BOLLICINE

In principio fu Librandi, in campo da oltre quindici anni con Rosaneti e Almaneti a conferma della visionarietà del compianto Nicodemo: in oltre tre lustri lo scenario dei vini spumanti calabresi si è evoluto. C’è stato un tempo in cui il tappo a fungo si vedeva solo a Natale o per benedire matrimoni, compleanni, cresime e comunioni: il mercato registrava picchi tra fine ottobre e gennaio mentre adesso è meno altalenante. Resta nondimeno la scarsa consapevolezza per cui tutto è genericamente “prosecco”, sia un Trentodoc o una Franciacorta… o una bollicina calabrese, appunto. Ostriche e champagne? Ecco un altro luogo comune da rifuggire dal momento che raddoppiereste la sapidità, in un effetto “sale su sale” con conseguente sensazione ferrosa e amaricante: meglio un bel Moscato d’Asti. Anzi di Saracena!

CONSAPEVOLEZZA

Dei consumatori ma anche dei ristoratori: «Oggi i ristoratori possono arrivare a proporti 7 vini calabresi e 3 di fuori regione, ieri era il contrario» (Gianluca Gallo). Demetrio Stancati, presidente del Consorzio Terre di Cosenza, racconta spesso delle difficoltà riscontrate in un passato neanche troppo remoto nel collocare nelle carte dei ristoranti calabresi le etichette locali, ancora a inizi anni 2000. Oggi la vera sfida è posizionare – dopo aver comunicato al meglio il prodotto attraverso il territorio e soprattutto le persone – il vino calabrese oltre il Pollino. Sfida tanto ambiziosa quanto impegnativa.

DONNE

In Calabria il vino è donna. Il duemila ha portato con sé l’affacciarsi di una generazione di donne preparatissime dal punto di vista tanto imprenditoriale quanto delle conoscenze: a Lidia Matera con le sue Terre Nobili è riconosciuto un ruolo da apripista, ormai oltre vent’anni fa, almeno per il Cosentino, quando la Dop Terre di Cosenza era lontana da venire. Oggi se ne contano una trentina attualmente in attività, ma è un numero in continuo aggiornamento.

EROICHE

Restiamo in ambito femminile con Rossella Natalia Stamati, esponente di spicco di una famiglia che pratica viticoltura eroica a Plataci, borgo arbereshe nel cuore del Parco nazionale del Pollino. Hanno riportato in Calabria il Sangiovese. Storie familiari di successo, a guida femminile: come per Mariangela Parrilla di Tenute del Conte (vai alla lettera R).

FRAMMENTAZIONE

Le Terre di Cosenza Dop (Denominazione di origine protetta) sono caratterizzate, oltre che dalla varietà dei vitigni autoctoni (magliocco dolce, pecorello, guarnaccia, odoraca, greco bianco, montonico e altre varietà del ricco patrimonio ampelografico calabrese), da 7 sottozone che corrispondono alle 7 ex Doc unificate con il disciplinare del 2011 – Condoleo, Colline del Crati, Donnici, Esaro, Pollino, San Vito di Luzzi e Verbicaro – e con la fondazione del Consorzio Terre di Cosenza Dop esattamente 10 anni fa (2014), che ha sostituito l’ex consorzio Vino Calabria Citra e rivisto le regole di produzione per mettere mano a un sistema di denominazioni ormai obsoleto, allora organizzato attorno a piccole e frammentate Doc, difficili da comunicare e in qualche caso non più produttive.

GRECIA

Il Cosentino è ricco anche di “vitigni reliquia”, alcuni iscritti da poco nel registro delle varietà: ad esempio “grappoli” a bacca rossa conosciuti col nome di greco, arrivati in un lontano passato dalla Grecia, che in realtà le analisi molecolari hanno identificato con varietà diverse, adesso ribattezzate con nomi di fantasia: il grecarese di Verbicaro, il negrellone nero di Montepaone, il balbino di Altomonte, citato da Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia (vai alla lettera P). E ancora: il lagario di Sibari, il mantonico nero ribattezzato brettio nero e tra i bianchi il pujno e la duraca: quest’ultimo un clone di zibibbo dell’alto Tirreno cosentino, impiegato anche per altri prodotti gastronomici come il Panicello di Santa Maria del Cedro o di Verbicaro, un “fagottino” di uvetta passa avvolto in foglia di cedro Diamante della Riviera; antichi vitigni che al momento hanno un valore di “banca dati genetica” ma che presto potrebbero entrare in produzione (tra i prossimi a essere iscritto il montonico pinto, già da alcuni vinificato).

HIC (ET NUNC)

È possibile riuscire a fare massa critica e avere un peso rilevante nel mercato nazionale nonostante la esigua produzione vitivinicola calabrese (lo 0,4% di quella nazionale)? In Calabria meno di 16 milioni di bottiglie quest’anno, tra peronospora ed eventi climatici estremi — ma in generale annata 2023 da archiviare in Italia: 38,3 milioni di ettolitri, dato più basso degli ultimi 76 anni, fatturato complessivo -0,2% ed export -0,8% sia in volume che in valore (fonte Mediobanca/Nomisma). La chiave, numeri a parte, resta quella racchiusa nella famosa frase-manifesto di Gustav Mahler: «La tradizione è custodia del fuoco, non adorazione della cenere». Innovare rispettando le radici.

ITINERARI

Quanto è importante l’enoturismo nel movimento vino calabrese? Tutto inizia 30 anni fa con un Piano di Filiera che unisce 30 piccole aziende, con la bisignanese Serracavallo capofila, e si intitola “Gli itinerari dei vini della Calabria Citra”: in nuce ci sono già i concetti di enoturismo e di Terre di Cosenza con la sua doppia C nel logo. Oggi si può spaziare dal jazz de Le Conche (Bisignano) al castello 500esco dei Sanseverino nella maxitenuta – 600 ettari – di Serragiumenta (Altomonte) famosa anche per le sue conserve, a La Peschiera (San Lorenzo del Vallo: siamo tra rigogliosi frutteti eppure il nome non deriva dalle pesche bensì dal pesce, il vicino Esaro era molto pescoso), originalestruttura nata nella seconda metà del ‘700 come concio di liquirizia della famiglia Longo e cresciuto tanto da diventare, un secolo dopo, il cuore di un borgo industriale abitato dalle famiglie degli operai, con tanto di scuole e chiesa. Per finire magari a La Matina (San Marco Argentano) rimanendo in ambito storico ma cambiando ambientazione e soprattutto periodo: il 1065 è l’anno in cui nasce il complesso monumentale dell’abbazia di Santa Maria de La Matina (nome della contrada), donazione di Roberto il Guiscardo ai monaci benedettini e attualmente uno dei più raffinati esempi di architettura cistercense in Calabria, benché poco nota. Oggi l’azienda agricola di Michele Valentoni, che la gestisce con la moglie Judith Sandonato, si estende su un territorio di circa 100 ettari e oltre al vino (primo imbottigliamento nel 2019) è apprezzata per il suo olio evo (cultivar Roggianella), i suoi ortaggi come i cavolfiori e i peperoni “roggianesi”, prelibati se cucinati come i cruschi dell’area Pollino.

LENTAMENTE

A proposito di itinerari, il percorso del vino calabrese è impervio ma lentamente sta procedendo, con ostinazione e passione nonostante gli ostacoli (cinghiali, una tropicalizzazione climatica che fa anticipare sempre più la vendemmia: attualmente di una quarantina di giorni rispetto al recente passato). La conferma del Terre di Cosenza e la crescita del Consorzio dei vini del Reggino – con nicchie di tutto rispetto come il Bivongi – ma anche il fermento dell’Accademia del Magliocco (interessante l’idea del Magliocco day) e l’attivismo delle Donne del Vino dimostrano che oltre al Cirotano la Calabria ha molto da dire. E nelle guide di settore le aziende calabresi aumentano.

MAGLIOCCO

A proposito di Magliocco. «E’ il vitigno calabrese» ripeteva Nicodemo Librandi, di cui in questi giorni si celebra il primo anniversario della morte. Eppure è il quasi omonimo Gaglioppo – mai confonderli! – a dare al Cirò il primato assoluto: la Doc (istituita nel 1969) rappresenta circa l’80% della produzione regionale. Il potenziale produttivo del distretto, che conta 530 ettari (nei quattro Comuni di Cirò, Cirò Marina, Melissa e Crucoli), con oltre 300 viticoltori e 70 cantine, è di oltre 3 milioni di bottiglie (3,1 quelle certificate nel 2018), all’orizzonte c’è la Docg che dovrebbe essere costituita da un 5-10% dei volumi totali imbottigliati.

NONNE

Torniamo all’universo femminile. «Non solo birra e cocktail, cerco di avvicinare i più giovani alla cultura del vino organizzando eventi in cantina tra dj e salsicce… anche per 250 persone». Enza Greco ha (ri)portato in Calabria, di preciso a Crucoli capitale della “sardella”, un modo particolare di comunicare il vino: «Sono stata tra le prime a organizzare questo tipo di manifestazioni», come ha raccontato rientrando dal Vinitaly dove la sua azienda era tra le 80 calabresi per la prima volte riunite in un unico grande stand. Enza nel 2017 è tornata in Calabria perché è venuto a mancare suo padre, uno dei sei figli di “nonna Innocenza”: «Io mi chiamo così per lei e ne vado fiera perché negli anni Venti fu una delle prime agricoltrici e imprenditrici del vino in Calabria. Rimasta vedova dovette fare della sua passione un lavoro che sostentasse sei bambini piccoli, dunque diresse in una Calabria patriarcale come quella di allora una azienda agricola in cui si produceva anche vino e olio: oggi il nostro frantoio ha oltre cinquant’anni di vita…».

ORIGINI

Dai tempi di Plinio (vai alle lettere G e P) alle pagine di Mario Soldati (55 anni fa il suo viaggio-reportage “Vino al vino”, primo testo focalizzato sul racconto del territorio e delle persone) il vino calabrese è qualcosa di sospeso tra storia e letteratura, denominazioni e mescolanze: la Guarnaccia del Pollino è la Granazza di Nuoro, mentre il Greco di Bianco altro non sarebbe se non la Malvasia delle Lipari con diramazioni in tutto il bacino mediterraneo, da Ischia alla stessa Sardegna, dalla Croazia alla Grecia alle Baleari. Calabria come tappa intermedia tra il mondo ellenico e la terraferma, terra di migrazione dei tralci come da millenni e ancora oggi lo è dei popoli. A proposito di meltin’ pot, il Magliocco – che da qualche anno vanta anche un’Accademia – pare sia figlio del Sangiovese e dello storico Mantonico, versatile e dalla Francia alla Croazia al Sud Italia «archetipico del Mediterraneo» per usare un’espressione cara a Matteo Gallello, guru del settore a dispetto della giovane età (under 40). Ma siccome quando si parla di Calabria c’è sempre la Magna Graecia sullo sfondo – oggi dà il nome al metodo classico per le bollicine –, lo stesso Mantonico riporterebbe al greco “mantèuo” (il termine “mantònikos” non esiste sul dizionario-bibbia Rocci), verbo che richiama la comunicazione della volontà divina, una radice che a sua volta potrebbe essere la stessa dell’isolotto di Mantineo sede di ancestrali vaticini da cui Giuseppe Berto fa risalire il toponimo Capo Vaticano.

PAPI & PRINCIPI

Il territorio di Cosenza tra Cinque e Settecento era uno di quelli a maggiore vocazione di export vinicolo: il vino della cosiddetta Calabria Citra o Citeriore allietava le tavole di Bruges, piaceva ai grandi casati del nord Italia (Medici, Estensi e Gonzaga) ma anche ai papi — su tutti Paolo III e Pio IV, destinatario, secondo una fonte storica, di 1800 botti spedite da Cassano Ionio nel 1560. Sempre in quel secolo aureo che fu il ‘500, il principe Pietrantonio Sanseverino ospitò nel 1535 Carlo V il quale molto apprezzò il vino che – si favoleggia – zampillava dalle fontane del castello di San Mauro i cui resti imponenti sono ancora oggi visibili a Corigliano Calabro. E sulla costa opposta? A Scalea si elencano vitigni autoctoni già nei registri di cancelleria di Federico II, mentre sempre nel XVI secolo il viaggiatore bolognese Leandro Alberti aveva eletto il mar Tirreno – lo stesso che inebriava con la sua salsedine il mitologico “Falerno” dei campani – zona elettiva del miglior nettare calabrese.

QUALITÀ

Un successo e una conferma, «reputazione» più che una suggestione. Il “papillon” Paolo Massobrio, decano della critica enogastronomica, non ha dubbi nel riconoscere alla vitivinicoltura calabrese un primato finalmente riconosciuto anche su scala nazionale: «Nell’edizione Vinitaly 2023 si sono già accesi i riflettori sulla qualità clamorosa dei vini calabresi, il 2024 è stato un successo. Alle mie masterclass sui vini calabresi è venuto addirittura il sindaco di Verona…» ha raccontato al Corriere della Calabria.

REVOLUTION

È il collettivo da cui la renaissance del vino calabrese è partita: la forze dei ragazzi della Cirò Revolution (Cataldo Calabretta, ‘A Vita, Sergio Arcuri, Cote di Franze, Tenuta del Conte, Vigneti Vumbaca e altri) è quella di essere idolatrati dai wine-lover ma anche rispettati dalle aziende che fanno milioni di bottiglie. R come Reggio Calabria, però: il Consorzio dei vini Reggini “Terre di Reggio Calabria” nato nel 2019, ha ricevuto meno di tre anni fa il riconoscimento sulla tutela (decreto del 18 ottobre 2021): raggruppa le più significative aziende del settore dell’intera provincia, ad oggi una trentina. Gli areali comprendono una Doc (Greco di Bianco) e sei Igt (Palizzi, Locride, Pellaro, Arghillà, Scilla, Costa Viola).

STELLATI

Nino Rossi (“Qafiz” a Santa Cristina d’Aspromonte) nella sua cucina stellata declina il Magliocco come fosse un pinot nero (i Cirò di ‘a Vita e Ceraudo ma anche Antonella Lombardo dal Reggino e Origine e Identità dal Vibonese) mentre i vignaioli cosentini di Tenuta del Travale (Rovito), con il loro Nerello Mascalese – e da poco anche Cappuccio nel Rosato Epicarma – forniscono gli stellati di oltre-Pollino presidiando la fascia altissima. A proposito di reputazione, consapevolezza e posizionamento nelle carte extra regionali.

TRIANGOLO

Forse non tutti sanno che quando si parla di vino nel territorio cosentino si deve tenere presente che siamo nel cuore del cosiddetto Triangolo di Van Der Mersch, dal nome di uno studioso che individuò nella Campania meridionale (Cilento), nella Lucania (Policoro) e nel Bruzio (Lamezia) le grandi aree di produzione di un tipo di anfore riconducibile a una comune produzione vitivinicola. Semplificando: dalla produzione delle anfore si individua il triangolo della produzione storica di vino.

UNICO (CONSORZIO)

I consorzi? Fanno un ottimo lavoro ma secondo l’assessore Gianluca Gallo sono troppi: «Non sarò più assessore quando si arriverà al Consorzio Unico, posso dire però che cinque consorzi sono troppi». Una suggestione. Per adesso.

VECCHIO (PLINIO IL)

Plinio il Vecchio menziona nella sua “Naturalis Historia” un «vinum Balbinum generosum» e non è un caso se una delle nuove denominazioni è proprio Balbina. Nome che riecheggia nell’azienda Terre di Balbia (Altomonte) che in dieci anni – prima vendemmia nel 2014/2015 – si è imposta con i suoi 11 ettari di cui 8 vitati incastonati tra due uliveti, produzione di 25/30mila bottiglie e tre vini biologici tutti in purezza: un Gaglioppo rosato e due rossi, ovvero un Magliocco dolce – che qui assicura 10mila piante ad ettaro – e Merlot, “lascito” di appena un ettaro della gestione Venica&Venica, che nei primi anni 2000 avevano estirpato i vitigni autoctoni per impiantare anche Sangiovese e Montepulciano (ma non avevano una cantina quindi lavoravano le uve al nord: caso di emigrazione vinicola!). La mente e le braccia sono quelle di Giuseppe Chiappetta, ingegnere e vignaiolo: «Io ho puntato tutto sul Magliocco dolce, che ora è registrato, mentre prima si doveva scrivere Magliocco canino, che è un vitigno completamente diverso».

ZIBIBBO

Z come zanzare? No, temutissime nel parco archeologico ma neutralizzate grazie agli spray distribuiti all’ingresso: tassello di una organizzazione impeccabile per Vintaly and the City, dalle navette alla sapiente disposizione delle diverse aree, dai prezzi contenuti dell’area food (esempio: bottiglietta d’acqua da 50 cl. a un euro) alla comunicazione per arrivare al coinvolgimento di partner extraregionali come il consorzio del Prosecco, Gambero Rosso, Concours Mondial de Bruxelles, Donne del Vino, Merano Wine festival, Pescara Abruzzo Wine, Radici del Sud e Wine Vision by Open BalKan. All’ultimo Vinitaly, evento padre della tre giorni di Sibari che si chiude oggi, si è molto parlato della doc Bivongi (tra le altre, Cantine Lavorata) della zona di Reggio Calabria (il rosso è fatto con gaglioppo, Greco nero, Nocera, Calabrese e Castiglione), territorio in ascesa grazie al lavoro del Consorzio (vai alla lettera R); e ora si è avviato l’iter per riconoscere la doc Costa degli Dei, nel Vibonese (tra le altre, Cantine Benvenuto e Casa Comerci ma anche Origine&Identità), terra di elezione dello Zibibbo, affrancato dalla sua “condanna” a essere soltanto un vino dolce: ora si beve a tutto pasto.

Nella foto: una batteria di vini rosa allo stand di Radici del Sud, tra cui spiccano le etichette di Casa Comerci e Barone Macrì, al Vinitaly and the City 2024 di Sibari (ph. Eugenio Furia)

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