COSENZA Sono trascorsi due anni dal blitz del primo settembre 2022, quando la Dda di Catanzaro ordinò il “Reset” della ‘ndrangheta confederata di Cosenza. Un esercito di indagati, 202, accusati a vario titolo di associazione di tipo ‘ndranghetistico, associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, aggravato dalle modalità e finalità mafiose, associazione a delinquere finalizzata a commettere delitti inerenti all’organizzazione illecita dell’attività di giochi – anche d’azzardo – e di scommesse, delitti di riciclaggio, autoriciclaggio e trasferimento fraudolento di beni e valori, nonché in ordine ad altri numerosi delitti, anche aggravati dalle modalità e finalità mafiose. Una inchiesta che assestato un durissimo colpo ai gruppi criminali cosentini consentendo di disvelare attività e business illeciti del sindacato di ‘ndrangheta con a vertice «Francesco Patitucci». Per anni reggente del clan degli “Italiani”, secondo l’accusa, rappresenterebbe «l‘autorevole ed indiscusso riferimento per tutti gli associati alla confederazione di ‘ndrangheta operante nella città e nell’hinterland cosentino, avendo assunto nel tempo le doti di ‘ndrangheta più elevate e corrispondenti a quella di “capo società”». Una figura cardine e capace di fare da collante tra i vari gruppi, da mediatore nelle questioni più spinose e pronto a delegare quando necessario al suo «delfino», Roberto Porcaro.
Nel frattempo ha deciso di saltare il fosso Gianluca Maestri, coinvolto nell’operazione nome in codice “Athena” e in “Reset”. Ha deciso – ad inizio 2024 – di collaborare con la giustizia ed è considerato promotore ed organizzatore dell’associazione degli “Zingari”, strategicamente vicino a Gennaro Presta. Chi ha deciso di collaborare con la giustizia è anche Francesco Greco, ex «luogotenente di Roberto Porcaro». Le principali accuse sono rivolte proprio contro l’ex reggente degli “Italiani”. «Porcaro mi ripeteva spesso di avere ampia disponibilità di armi al punto da poter “fare una guerra”. All’interno dell’associazione ciascun gruppo e ciascun referente gestiva il proprio arsenale. Così, ad esempio, l’arsenale che fu rinvenuto nel 2018 nel quartiere degli “Zingari” era, appunto, riconducibile agli Abbruzzese».
Dalle carte al tribunale. Il capitolo “Reset” viene discusso nell’aula bunker di Lamezia Terme, dinanzi al tribunale di Cosenza in composizione collegiale. Dopo una serie di operatori di pg, i pm della Dda di Catanzaro Vito Valerio e Corrado Cubellotti – che rappresentano l’accusa – hanno chiamato a testimoniare una serie di pentiti. Partendo dai collaboratori “storici”. Come sottolineato dal pentito Luciano Impieri, “Zingari” e “Italiani” avrebbero fatto «accordi di pace», in particolare «il 60% su estorsioni e droga lo prendevamo gli “Italiani” mentre gli “Zingari” il 40%». Lo spaccio di droga – sempre per bocca di Impieri – sarebbe il business più redditizio per la criminalità organizzata, necessario ad alimentare la “bacinella”, la cassa comune: soldi sporchi utili a finanziare investimenti in attività solo apparentemente lecite. Sul mercato della droga vige una regola, gli unici acquisti consentiti ai pusher sono quelli riferiti e riferibili al “Sistema” e non è consentito il sottobanco, ovvero il rifornimento da fonti terze. Secondo Zaffonte: «all’interno del Sistema gli spacciatori possono transitare da un gruppo all’altro perché…è sempre come se fosse la stessa cosa..».
Oltre alle accuse mosse nei confronti dei singoli imputati, la vera partita tra accusa e difesa si gioca sulla presenza o meno della Confederazione di ‘ndrangheta. La partita tra accusa e difese si gioca sulla esistenza della Confederazione di ‘ndrangheta. Una tesi quella della presenza di una unica grande Cupola ‘ndranghetista sostenuta dalla Dda, ma respinta con forza dai vertici dei clan cosentini. Recentemente, nel corso di un altro processo, Francesco Patitucci ex reggente del clan Lanzino-Ruà-Patitucci ha reso interessanti dichiarazioni spontanee. Il boss, oggi al 41 bis, ha ammesso «di far parte di un’associazione mafiosa, di esserne stato capo, ma di non aver mai fatto parte di una Confederazione». Chi la pensa diversamente è Daniele Lamanna, oggi pentito ma un tempo uomo d’onore. Affiliato al clan Bruni-Zingari, ha ripercorso le tappe che hanno convinto i gruppi a seppellire l’ascia di guerra e sancire la pax: preceduta da due incontri. «Al vertice c’erano coloro che avevano un rilievo nel concetto ‘ndranghetistico», dice Lamanna che chiosa: «Quando parlo di gruppi mi riferisco a Patitucci-Ruà-Lanzino e poi ai Tundis, ai fratelli Calabria, a Muto, e Maurizio Rango che era rappresentante degli Zingari».
Il procedimento ordinario è ancora in fase embrionale, molti altri collaboratori saranno sentiti nei prossimi mesi a partire dal prossimo 12 settembre quando è calendarizzato il controesame del pentito Luca Pellicori (qui le dichiarazioni rese nell’ultima udienza). Diverso il percorso per coloro che hanno optato per il rito abbreviato. I prossimi step sono previsti l’11 settembre, il 25 settembre e il 7 ottobre. Il timing indica entro il 2024 la possibile sentenza, un primo step per testare il portato accusatorio della maxi operazione contro la mala cosentina. (f.b.)
Il Corriere della Calabria è anche su WhatsApp. Basta cliccare qui per iscriverti al canale ed essere sempre aggiornato
x
x