REGGIO CALABRIA Una «consolidata e comune sinergia operativa attiva» in un contesto in cui i clan De Stefano, Tegano, Condello e Libri, vengono definite le “quattro famiglie” tra le quali avviene la spartizione dei proventi delle estorsioni imposte a commercianti e imprenditori del centro storico di Reggio Calabria. Associazione mafiosa, estorsioni e danneggiamenti sono le principali accuse mosse dalla Procura di Reggio Calabria contro gli imputati, molti dei quali condannati, nel corso del processo “Epicentro”. Nel mirino della Dda sono finiti esponenti e gregari delle più potenti cosche della ‘ndrangheta reggina. Sono tre le inchieste che sono confluite in un unico procedimento: nato dalle inchieste “Malefix”, “Metameria” e “Nuovo corso”, il maxi-processo “Epicentro” è la prosecuzione dei processi “Olimpia” e “Meta”. Dieci le condanne nel processo con rito ordinario, cinque le assoluzioni. A luglio è arrivata invece la sentenza in appello del processo in abbreviato con 44 condanne e 11 assoluzioni.
Tra le condanne più pesanti quelle a Carmine De Stefano (20 anni), a 12 anni e otto mesi per il cugino Giorgio De Stefano, Luigi “Gino” Molinetti (18 anni), Paolo De Stefano (9 anni), Antonio Libri (18 anni), Orazio De Stefano (15 anni), Salvatore Giuseppe Molinetti (19 anni) Carmine Polimeni (14 anni), Donatello Canzonieri (21 anni), Domenico Tegano (12 anni e 8 mesi), Filippo Barreca (19 anni e 6 mesi), Domenico Calabrò (18 anni), Demetrio Condello (16 anni), Giandomenico Condello (14 anni e sei mesi), considerati gli esponenti di spicco delle omonime ‘ndrine mafiose.
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Dalle indagini è emersa una ‘ndrangheta «destefanocentrica». La cosca di Archi per la Dda è «la più potente e autorevole, quella di fronte alla quale tutti alla fine fanno un passo indietro». Una egemonia criminale, quella della cosca “De Stefano”, attorno a cui ruotavano le ‘ndrine Tegano, Molinetti, Libri, Condello, Barreca, Rugolino, Ficara, Latella, Zito e Bertuca. I rapporti tra le varie articolazioni di ‘ndrangheta a Reggio Calabria sono stati analizzati dettagliatamente in una memoria depositata dalla Procura generale presso la Corte d’appello di Reggio Calabria nell’ambito del processo “Epicentro”. Oltre 900 pagine che raccontano la «gestione comunitaria» degli affari criminali, attraverso «un costante dialogo solidaristico ed una pianificata condivisione del progetto ndranghetistico da parte delle diverse articolazioni reggine».
Una sorta di «reductio ad unum», finalizzata ad una «gestione comunitaria e profittevole delle varie pretese, facente capo alla famiglia De Stefano, di riconosciuta superiorità per autorevolezza criminale, prestigio e capacità di dialogo ed infiltrazione di ampi settori della società, nella persona di Carmine De Stefano», scrive la Procura reggina, che delinea la figura del boss appartenente alla storica famiglia di Archi e sottolineando la capacità di De Stefano di «aggregare intorno a sé le nuove leve provenienti anche da altre famiglie, ivi comprese quelle un tempo contrapposte nella sanguinosa guerra di ‘ndrangheta».
La struttura associativa, frutto della federazione tra ‘ndrine, è provata «da una serie di inequivocabili elementi dimostrativi da ultimo acquisiti nell’ambito delle indagini confluite nel presente procedimento». Procedimento che «ha definitivamente confermato – nell’ottica dell’ormai riconosciuta vocazione unitaria della ‘ndrangheta – l’esistenza di una federazione tra le storiche famiglie mafiose reggine, operanti in stringente connessione operativa tra loro e, comunque, tutte subordinate al predominio catalizzante del gruppo di Archi, facente capo da ultimo al boss Carmine De Stefano». I De Stefano, i Tegano, i Condello e i Libri, le “quattro famiglie” tra le quali avviene la spartizione dei proventi delle estorsioni imposte a commercianti e imprenditori del centro storico di Reggio Calabria. Diversi i punti analizzati nel documento, che dimostrerebbero una «consolidata e comune sinergia operativa attiva»: l’organizzazione di “tavoli” tra i rappresentanti delle varie cosche; l’esistenza di confronti riservati; la comunanza di intenti tra le varie ‘ndrine; la palese dilatazione dei confini territoriali e la possibilità, per le articolazioni operanti nei quartieri limitrofi di estendere il proprio controllo territoriale nelle aree vicine. Il mutuo soccorso e la reciproca assistenza tra le varie ‘ndrine, «affinché gli imprenditori provenienti dai rispettivi territori versassero il necessario obolo di ‘ndrangheta ai referenti dei quartieri in cui, di volta in volta, andavano ad operare». La frequente organizzazione di incontri tra i capi delle diverse articolazioni, «funzionali a concordare modalità operative comuni e ad attuare vicendevoli scambi informativi per la corale pianificazione delle estorsioni». «L’estensione dell’influenza ‘ndranghetistica delle cosche di Archi sino al territorio di Villa San Giovanni, in accordo con le storiche ‘ndrine del luogo». «L’organizzazione di collette in favore di detenuti delle diverse ‘ndrine, in modo da estendere i doveri solidaristici tipici delle associazioni mafiose ben al di là della ristretta cerchia dei sodali di ciascuna cosca». Ricostruzioni sviluppate anche grazie al contributo dei collaboratori di giustizia, tra questi c’è Maurizio De Carlo. «Ci sono troppi soldi in ballo», ha detto ai magistrati: «Oggi, guerre, dottore, non se ne fanno più perché ci sono troppi soldi in ballo e quindi preferiscono sedersi e dividersi…». (m.ripolo@corrierecal.it)
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