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«Dietro ogni alunno c’è una storia. Un racconto spesso scritto a metà»

«Ricordo ancora il mio primo giorno al primo anno del liceo classico. All’epoca, nel lessico scolastico, era forte l’impronta greca. Il biennio aveva un nome magico, ginnasio. Dopo i saluti di rit…

Pubblicato il: 14/09/2024 – 9:50
di Felice Foresta
«Dietro ogni alunno c’è una storia. Un racconto spesso scritto a metà»

«Ricordo ancora il mio primo giorno al primo anno del liceo classico. All’epoca, nel lessico scolastico, era forte l’impronta greca. Il biennio aveva un nome magico, ginnasio. Dopo i saluti di rito, il professore di latino e greco manifestò la sua malcelata diffidenza per i testi di critica alla letteratura greca e latina. Tutti ci dimostrammo ovviamente convinti della sua tesi e, ignari, annuimmo. Lui, dopo una pausa che sapeva di eternità, lapidò i nostri entusiasmi. A me, che forse proruppi in un ottimismo più disinibito, disse: “Stia tranquillo (sì, ci dava del lei). Ogni volta che studieremo un autore, sarà Lei e saranno i suoi compagni a dire cosa ne pensiate di quel brano, cosa voglia dire, quali significati, quali valori e quali ideali vi trasmetta”. Fu una frase che, lì per lì, pietrificò il mio sorriso. Nel tempo, fu la chiave di volta che mi permise di leggere tra le pieghe degli eventi e delle persone. La scuola, oggi, ha un carico di responsabilità suppletivo. Accusando un ritardo non a lei imputabile, dovendo fare i conti con risorse spesso limitate e, però, non potendo abiurare al suo compito principe di vivaio di intelligenze. Ecco perché dico, a spada tratta, grazie a tutti gli insegnanti. Perché il loro impegno, sottostimato e non gratificato abbastanza, resta l’unico presidio di una società alla deriva. La mancanza di agenzie culturali e lo sfaldamento assiologico che si registra, purtroppo, in molte famiglie e in molti lembi della società impone loro un compito ulteriore. Quello di capire che dietro ogni alunno c’è una storia. Un racconto spesso scritto a metà. Un piccolo deserto. Una domanda di affetto che rimbomba nel vuoto, o tra il tintinnio di una tastiera. Un bisogno di aiuto che rimane inascoltato. E questo compito non si trova declinato nelle algide premesse e nei farraginosi dispositivi di editti ministeriali.
È scritto, invece, sulle pareti di anime belle, come quelle delle maestre che hanno una casa, sono donne e sono pure madri. Come quelle dei maestri che resistono alle intemperie, perdono la voce e spesso anche il treno dei loro desideri. La scuola, allora, rimane, ma lo si scopre sempre troppo tardi, l’intermezzo più straordinario della nostra vita. È il mastice che ti serve per aggrapparti quando il destino ti fa lo sgambetto. È un giaciglio dove corri a riposarti quando vedi il buio oltre la siepe. È un confessionale che non ingoia peccati ma solo nostalgie dolci e irripetibili. Nel suo ventre colorato di gomma e temperamatite raccogli le tue gocce di fantasia e immortalità. Dopo la mia scuola, adesso c’è quella dei miei figli. Per dieci anni di fila li ho accompagnati. Rimanendo un passo indietro. Per osservare, trattenere il fiato, e salire su quella B di bravissimo che era come un cavallo alato. Ho rincorso me stesso nella scuola dei miei figli, mimetizzandomi fra zainetti colorati, ombrelli rotti e panini al burro. Ho giocato le loro battaglie navali, ho perso la loro voce fra le maglie della paura, e ho recitato nell’aula magna dei loro sogni.
Lunedì mattina, la campanella della scuola tornerà a suonare in Calabria. E, anche se non accompagnerò a scuola i miei figli ormai ‘grandi’ e autonomi, io continuerò a correre per non fare tardi. E per cercarmi fra i mille bambini che terranno fra le braccia la loro scuola. Per non morire mai».

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