REGGIO CALABRIA Una storia criminale accertata e affermata per la prima volta nell’ambito del procedimento “Olimpia”, definito con sentenza della Corte di assise di Reggio Calabria il 19 gennaio 1999. Con tale sentenza è stato riconosciuto che la cosca Libri «aveva partecipato alla seconda guerra di mafia, scoppiata tra il 1985 e il 1991, iscrivendosi nello schieramento facente capo alla famiglia De Stefano». Così i giudici della Corte d’appello di Reggio Calabria (presidente Alfredo Sicuro, a latere Giuseppe Perri e Cristina Foti) nelle motivazioni della sentenza in secondo grado del processo “Libro nero”. Cinque le condanne e una l’assoluzione al termine del processo nel marzo 2024. Ad essere condannati Antonio Caridi (12 anni e 8 mesi), Gianpaolo Sarica 15 anni, Antonio Zindato 12 anni e 4 mesi, Giuseppe Libri, 12 anni, e Giuseppe Serranò, 10 anni e otto mesi. Unico assolto Giuseppe La Porta.
Nelle pagine delle motivazioni depositate lo scorso 5 settembre la Corte ripercorre la storia di uno dei clan reggini più potenti. Nel 2011 sarà il processo “Testamento” ad accertare la permanente operatività dell’associazione Libri fino al luglio 2007 con una sentenza secondo la quale al vertice della cosca vi era Pasquale Libri mentre Antonino Caridi aveva il compito di gestire per conto dell’associazione il territorio del quartiere di San Giorgio. La sentenza ha individuato in Pasquale Libri il capo incontrastato della famiglia, specie dopo il decesso del fratello Domenico con il quale aveva in precedenza condiviso la direzione della cosca. La sentenza del 30 novembre 2011, di parziale riforma di quella emessa nel giudizio ordinario dello stesso processo “Testamento”, ha ribadito – scrivono i giudici reggini – l’esistenza della cosca, individuando l’odierno imputato Giuseppe Libri quale uno dei componenti con ruolo apicale. Il processo “Alta Tensione”, definito il 14 aprile 2014, ha ribadito l’esistenza di un’associazione mafiosa facente capo alla famiglia Libri, individuando la cosca operante nel quartiere di San Giorgio, denominata Borghetto – Caridi – Zindato, come un’articolazione della medesima famiglia. La sentenza del 9 dicembre 2021, emessa nell’ambito del procedimento “Theorema – Roccaforte”, ha confermato 1’esistenza della cosca Libri fino al 31 luglio 2018, individuando in Chirico Filippo il soggetto che aveva assunto il ruolo apicale.
Associazione mafiosa, concorso esterno in associazione mafiosa, estorsione, turbata libertà degli incanti, porto illegale in luogo pubblico di arma comune da sparo, con l’aggravate dell’agevolazione mafiosa, tentata corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio. Queste le accuse mosse dalla Dda di Reggio Calabria con l’inchiesta “Libro Nero” che scatta nel luglio 2019. Condotta della Sezione “Reati contro il Patrimonio e la Pubblica Amministrazione” della Squadra Mobile di Reggio Calabria, l’operazione ha consentito di individuare i ruoli di soggetti di vertice, affiliati e concorrenti esterni della cosca Libri, pienamente inserita nella ‘ndrangheta unitaria e attiva nella città di Reggio Calabria, segnatamente nei quartieri Cannavò, Condera, Reggio Campi, Modena, Ciccarello, San Giorgio e nelle frazioni di Gallina, Mosorrofa, Vinco e Pavigliana. Le evidenze investigative consentirono di accertare, ancora una volta, l’esistenza e la vitalità della cosca Libri, e della sua sub-articolazione Borghetto – Caridi – Zindato, attraverso l’emergere di «costanti e consolidati rapporti tra gli associati, della mutua assistenza fornita agli affiliati detenuti ed ai loro familiari, della consapevole compartecipazione alle condotte delittuose ed efficace ripartizione di compiti».
Ad emergere in particolare è la figura apicale di Antonino Caridi, classe ’60, genero del defunto Domenico Libri, detto “don Mico”, storico patriarca dell’omonima cosca di ‘ndrangheta. Anche se detenuto, Caridi – secondo i giudici – riusciva a mantenere il controllo sul territorio anche attraverso l’aiuto di Gianpaolo Sarica che su mandato del boss, nel quartiere di San Giorgio Extra, svolgeva «compiti direttivi ed organizzativi, collaborando con gli altri esponenti di vertice del sodalizio, dando indicazioni operative agli affiliati, individuando le imprese egli esercizi commerciali da sottoporre ad estorsione e ricevendo i relativi proventi, ordinando danneggiamenti e ritorsioni in caso di inottemperanza alle richieste estorsive, destinando parte delle somme agli associati detenuti ed ai loro familiari, occupandosi degli investimenti dei proventi illeciti in progetti imprenditoriali e commerciali, mantenendo i rapporti con esponenti di altre famiglie mafiose e coordinandosi con gli stessi per assicurare il rispetto delle regole di spartizione del territorio».
Caridi «nonostante fosse da più di dieci anni lontano dal territorio e impossibilitato a comunicare liberamente», scrivono i giudici, «continuava a essere considerato, in contesti di criminalità organizzata, come un soggetto che avrebbe potuto modificare gli equilibri all’interno dell’associazione in contestazione». Un nome, quello del genero del boss Libri che nei verbali è «evocato come un individuo pericoloso», tanto che un esponente della cosca Serraino lo definisce in una intercettazione come «un soggetto estremamente potente, che, quando fosse stato scarcerato, avrebbe potuto scatenare una guerra all’interno della famiglia “Allora là, sai com’è il discorso che Mico là … là quando escono si ammazzano perché c’è Nino Caridi non è il genero di Mico, quello è ognuno”)».
Secondo i giudici «una parte dei proventi delle estorsioni erano destinati a Chirico e a Caridi, non per solidarietà familiare, ma perché essi erano “carcerati” che appartenevano all’associazione e che per tale motivo avevano diritto a ricevere una quota e non “meritavano” che taluna delle altre famiglie venisse meno al patto di distribuire una parte delle somme ricavate dall’attività illecita». «È certo – si legge nelle motivazioni – che Caridi e la sua famiglia fruivano, durante la detenzione, del sostegno derivante dalle estorsioni portate avanti dalla consorteria». Una circostanza che secondo la Corte «trova conferma nel colloquio carcerario del 19 luglio 2021, le cui registrazione e trascrizione sono state acquisite all’udienza del 5 febbraio 2024». «Nel corso del colloquio – scrivono i giudici – il detenuto, oltre a lasciarsi andare alle consuete farneticazioni anche a sfondo religioso che caratterizzano i colloqui precedenti, allorché la figlia gli ha prospettato difficoltà nel pagamento di uno dei legali (”Vedi che siamo arrivati forse a 50.000 euro che gli dobbiamo dare a questo cristiano”), ha affermato con convinzione che qualcuno avrebbe provveduto (“Tu non ti preoccupare, c’è chi lo paga”), invitando per di più la congiunta a non fare troppe domande sulla questione (“Non t’interessa a te. Non t’interessa a te. Sono fatti miei”)». (m.ripolo@corrierecal.it)
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