CROTONE Quando nasci in certi posti «sei segnato dal destino in base al cognome che porti». Pierpaolo Bruni, oggi procuratore capo di Santa Maria Capua Vetere, è stato sostituto procuratore a Crotone e si è occupato, con le applicazioni in Dda, del fenomeno mafioso. Il commento dell’ex procuratore di Paola è riferito alla ricostruzione fatta dalla redazione di Cose Nostre, programma in onda sulla Rai, sulla cosca Vrenna-Bonaventura di Crotone. La città di Pitagora è stata teatro di una sanguinosa faida che ha contrapposto due famiglie rivali. La presenza della ‘ndrangheta sul territorio Crotonese è tornata sotto i riflettori dopo la recentissima inchiesta della Dda di Catanzaro, nome in codice “Sahel”, che ha decapitato un presunto gruppo criminale legato alla famiglia Martino pronto a prendere il controllo dopo il declino del clan Grande Aracri.
«Ero un cacciatore mi mandavano ad ammazzare la gente», confessa il pentito Luigi Bonvanetura che porta il nome di suo nonno Luigi Vrenna detto “U Zirru” o “Zio Luigi”: uno dei più importanti capibastone del dopoguerra, capace di prendere il controllo del Porto di Crotone e del contrabbando sigarette. Erano gli anni ’70 e la vendita illegale del tabacco «valeva quanto il traffico di cocaina di oggi». E’ sempre il pentito a parlare. Ma perché “U Zirru”? Il nomignolo affibbiato al boss si lega al soprannome dato a suo padre: da giovane forte e robusto ed in grado di spostare un bidone pieno d’olio (lo zirro) con estrema facilità.
Vrenna è un boss all’antica, depositario del codice criminale d’onore, non traffica droga ed è contrario ai sequestri, ma ha un «vizio» e quello decide di concederselo in barba alle leggi mafiose. «Era un donnaiolo», confessa il nipote.
In pochi anni, U’ Zirru diventa «padrone di Crotone», un «califfo». Siede al tavolo con Mommo Piromalli e Antonio Macrì, il suo nome fa tremare i polsi e anche la comunità crotonese mostra rispetto. Ma sarà proprio il suo potere a fomentare l’odio di picciotti pronti ad opporsi all’egemonia dei Vrenna-Bonaventura. L’avvocato Luigi Li Gotti ricorda quegli anni. «Nei miei anni giovanili ricordo Vrenna, lo vedevo perché stava stabilmente all’esterno di un bar all’esterno e riceveva persone».
Poi nell’estate del 1973 «avvennero moltissime cose». E’ luglio del ’73, l’egemonia di U Zirru è fuori discussione, ma c’è un’altra famiglia guidata da Umberto Feudale, titolare di una autofficina, che «non si accontenta delle briciole» lasciate dal patriarca. Li chiamano i “Petrulari”. In quella estate, Antonio Marullo figlio di U Zirru e Antonio Feduale, sono protagonisti di una sparatoria nella quale viene coinvolta anche una donna, una casalinga vittima innocente del conflitto a fuoco. Il clima è teso, la faida è all’inizio. Passano poche ore, è nel centralissimo Viale Regina Margherita una nuova sparatoria si chiude con la morte di Calogero Vrenna, figlio di Luigi e con il ferimento di Francesco Feudale, che morirà qualche giorno dopo.
«Dall’ingresso della loro officina, i Feudale controllavano il passaggio delle macchine e videro un’auto transitare più volte e lentamente. A bordo della auto, si distingueva al sagoma di “Nini” Calogero Vrenna, figlio di Luigi», ricorda l’avvocato Li Gotti. I Feudale decisero di passare all’azione. All’ennesimo passaggio, «la vettura si fermò come per fare rifornimento e gli uomini in macchina con Vrenna si allarmarono. “Nini” aprì la porteria cercando di uscire ma aveva messo la gamba destra a terra quando Umberto Feudale fece fuoco colpendolo mortalmente». Vrenna cade al suolo e nel caos, l’auto con a bordo i Feudale passa sopra il corpo del figlio del boss. E’ un affronto, «quando l’organizzazione scende in guerra – suggerisce il procuratore Bruni – non c’è rispetto per nessuno».
Le parole del procuratore Bruni anticipano la narrazione di un evento che segnò un punto di non ritorno nella guerra tra casati criminali. «Ci fu un agguato e spararono all’auto con a bordo una delle sorelle della famiglia Feudale che fece scudo con il proprio corpo ad un bimbo di 4 anni, non morì nessuno ma era un ulteriore episodio che rafforzava la pesantezza del clima», confessa l’avvocato Li Gotti. Da quel momento la famiglia Feudale decise di rimanere barricata in casa, cercando di proteggere i due figli Salvatore e Domenico. I giovani stanchi di vivere una vita da reclusi chiedono ed ottegono il permesso di uscire. «Andarono al cinema, attraversarono la piazza del mercato di Crotone ma erano stati visti uscire da due componenti dei Vrenna-Bonaventura. Salvatore e Domenico furono attinti da numerosi colpi di arma da fuoco. Domenico di 18 anni morì sul colpo, mentre Salvatore, di 9 anni, rimase gravemente ferito e venne portato in ospedale». Morirà poco dopo. Quella sanguinosa mattanza di due giovani innocenti scuote la comunità «La ndrangheta – sottolinea Bruni – non dimentica e prima o poi presenta il conto, il livore e l’astio non vengono meno ma anzi quando qualcuno ritiene di poter abbassare la guardia è proprio in quel momento che viene dato il colpo del ko». (f.b.)
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