LAMEZIA TERME Da eroi solitari e valorosi nel corso della pandemia da Coronavirus affrontata spesso a mani nude a bersaglio mobile di pazienti e familiari arrabbiati e violenti. È bastato porre fine all’emergenza scatenata dalla diffusione del Covid-19, per dimenticare tutto, resettare il libro dei ricordi e tornare ad una cruda realtà. La foto in copertina è emblematica e ritrae alcuni operatori sanitari barricati in una stanza del reparto di Chirurgia toracica del Policlinico Riuniti di Foggia. La notte del 4 settembre scorso sono stati vittime dell’assalto di familiari e amici di Natasha Pugliese, la 23enne di Cerignola morta dopo essere stata sottoposta a un delicato intervento chirurgico.
L’ultimo caso in Calabria, invece, si è verificato il 25 settembre scorso quando un uomo è stato fermato e portato al commissariato di polizia dopo un’aggressione verbale rivolta nei confronti di un infermiere del Pronto soccorso dell’ospedale di Lamezia Terme. Si era presentato e pretendeva che sua moglie venisse ricevuta subito, senza alcun codice emergenziale assegnato, e non vedendo accolta la sua richiesta ha reagito aggredendo verbalmente l’infermiere. Ci sono stati momenti di concitazione tra i presenti per il timore che potesse accadere qualcosa di più grave, ma l’intervento di un agente in servizio al posto fisso di Polizia ha scongiurato ogni rischio. Sul posto sono poi intervenute tre volanti che hanno portato via il presunto responsabile.
L’episodio è solo l’ultimo di una lunga sequela di minacce, aggressioni verbali e fisiche rivolte a medici, infermieri e personale sanitario in servizio nei presidi calabresi. Secondo un recente sondaggio dei sindacati Anaao-Assomed, l’81% ha subito aggressioni: il 23% di tipo fisico, il 77% verbale. E ancora, il 75% avrebbe assistito personalmente ad aggressioni ai colleghi (29% degli intervistati riferisce di essere a conoscenza di casi da cui è scaturita l’invalidità permanente o il decesso), il 69% non denuncia. «L’aggressione è sempre una sconfitta», spiega Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione nazionale ordini professioni infermieristiche a Famiglia Cristiana. «Subentra – aggiunge – un senso di frustrazione e anche di rimozione dell’accaduto, per poter andare avanti». Tra gli ambienti più a rischio troviamo i pronto soccorso, le aree di degenza, i servizi psichiatrici e gli ambulatori.
Per contrastare e prevenire il fenomeno delle aggressioni al personale sanitario, l’esercito da qualche giorno vigila sull’ospedale di Vibo Valentia. La decisione è stata presa dal prefetto Paolo Giovanni Grieco e rientra in un piano di rimodulazione dei servizi di vigilanza già operati dall’Esercito su obiettivi sensibili nel territorio vibonese nell’ambito dell’operazione “Strade sicure”. Nell’ospedale di Vibo, nei mesi scorsi, si sono verificati diversi casi di medici ed infermieri aggrediti da pazienti o da loro familiari. La vigilanza al pronto soccorso dell’ospedale Jazzolino era stata rafforzata anche dall’Azienda sanitaria provinciale. Da Vibo a Reggio Calabria, presidi sanitari diversi ma stessa situazione. La denunci questa volta è del segretario aziendale Fials Fvm Medici, Gianluca Carpentieri e riguarda «un episodio di violenza ai danni del personale sanitario del Gom», l’ospedale reggino che dopo aver registrato di una aggressione ai camici bianchi del reparto di chirurgia vascolare, diventa teatro di un atto di violenza contro una dottoressa del pronto soccorso.
Esercito, presìdi di polizia ma non solo. Il Governo prepara le contromisure per ridurre il numero di casi di violenza e per consentire di identificare e punire i trasgressori. Ad ottobre scatterà l’arresto in flagranza differita. Non una novità assoluta. La misura, infatti, attraverso l’utilizzo delle immagini di un sistema di videosorveglianza o anche di una foto scattata con uno smartphone, consente alle forze dell’ordine di procedere con l’arresto del responsabile anche con 48 ore di ritardo rispetto alla violenza o alla aggressione perpetrata. E pensare che solo qualche mese fa ringraziavamo medici e infermieri per il lavoro svolto, per i turni massacranti portati a termine, per l’assistenza fornita e garantita durante gli anni di pandemia. Di quegli “angeli” qualcuno si è evidentemente dimenticato. (f.benincasa@corrierecal.it)
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