In un’aula di Corte d’Appello a Como è iniziata un processo che vede alla sbarra (per usare frase fatta del tempo dei vecchi giornali) quattro calabresi, Giuseppe Calabrò, Demetrio Latella, Antonio Talia e Giuseppe Morabito. Sono gli ultimi nomi dei responsabili che sequestrarono e uccisero nel 1975 Cristina Mazzotti, la studentessa diciottenne figlia di un industriale, prima donna rapita e uccisa in un reato orribile per concezione e gestione.
Invece alla Corte d’Appello di Reggio Calabria, l’ex sindaco di San Luca, Sebastiano Giorgi, e il suo ex assessore, Francesco Murdaca, dopo 11 anni sono stati assolti dall’accusa di “concorso esterno in associazione mafiosa”. Restano i 400 giorni di carcere ingiusto, il processo mediatico e i mille dubbi sugli scioglimenti dei consigli comunali per mafia e lo stesso reato di concorso esterno, mostro emergenziale della legislazione antimafia.
Lego le due vicende senza schierarmi dietro le tifoserie di emergenzialisti e giustizialisti.
A ben riflettere e a cercare i nodi che vengono al pettine, io ritengo che Luca Sebastiano Giorgi e Francesco Murdaca siano non solo vittime di giustizia ingiusta ma anche dei quattro anziani sequestratori imputati nella Corte d’Appello di Como. L’informazione nazionale e locale tutta con dovizia di particolari ha ricostruito il sequestro Mazzotti come “cold case” spettacolare al tempo del “crime”, nessuno però in Calabria o altrove si è soffermato sul grumo di quella morte.
Nel 1975 il volto diciottenne di Cristina Mazzotti fu l’emblema di un disperato Paese. Rapita ad una festa di maturità, tenuta in una botola sotto terra in cui non poteva stare in piedi, alimentata con un panino al giorno, sedata con tranquillanti ed eccitanti muore dopo 28 giorni. La famiglia pagherà ignara un riscatto miliardario quando Cristina è già morta.
In un’Italia in preda alla guerra civile a bassa intensità alzano la voce i padri politici dei sovranisti di oggi che reclamano la pena di morte (almeno certe pulsioni sono scomparse) ma dal Nord si afferma lo stigma nei confronti dei calabresi che sequestrano e uccidono nel nome del denaro. Si tornò a sollevare il falso mito dei calabresi “tortores Christi” e di Giuda Iscariota nostro presunto concittadino. Antropologicamente cattivi.
Fu vicenda dolorosa. Per questo motivo, in modo traslato e simbolico, ritengo il settantenne reo confesso Latella, braccio destro di Epaminonda “il tebano”, l’africoto Talia, 73 anni, Calabrò, 74 anni detto “u dutturicchio” perché aveva frequentato l’università, che anch’essi siano responsabili morali dell’odissea giudiziaria dell’ex sindaco e assessore di San Luca. Anche Calabrò viene dal paese di Corrado Alvaro come Sebastiano Giorgi e Francesco Murdaca. Questi quattro vecchietti con i loro vecchi compari mettendosi a sequestrare e uccidere italiani del Sud e del Nord hanno alimentato non solo pregiudizio ma anche il mostro emergenziale delle leggi speciali dei moderni inquisitori che non temono lo sbaglio giudiziario. E vi fu chi all’epoca in Calabria sbarellò nelle analisi vedendo nei sequestratori dei nuovi briganti che potevano essere utili alla lotta di classe. Nel sequestro Mazzotti troviamo anche la rilevanza dei soldi che è giusto richiamare. Elios Mazzotti morirà di crepacuore pochi mesi dopo il sequestro della figlia, pagò all’organizzazione dei calabresi un miliardo e 50 milioni di lire dell’epoca (circa 7 milioni di euro odierni). Grazie ad un direttore di una banca svizzera il quale segnalò un’operazione sospetta si risalì a molti responsabili del rapimento. Giornalisti d’inchiesta invece seguirono una pista sul denaro Mazzotti che sarebbe finito nella casse del Banco Ambrosiano di Calvi morto a Londra dotto il Ponte dei Frati neri.
Nessun riscontro ma l’origine di una questione aperta che è quella del denaro del crimine calabrese, ieri frutto di sequestri, oggi del narcotraffico, che dai tempi di Cristina Mazzotti alimenta economia ufficiale in una bolla che sta in Borsa, nei fondi d’investimenti, in lussuosi studi di commercialisti.
Ma c’è ancora un altro aspetto di quel sequestro che va raccontato.
La famiglia Mazzotti non ha invocato mai nessuna vendetta come accade spesso oggi in molti processi. Quegli imprenditori lombardi fecero nascere una Fondazione intitolata alla giovane figliola affinché al corso della giustizia si accompagnasse la cooperazione alla solidarietà umana, il rifiuto della violenza e la formazione dei giovani. La mamma di Cristina, Carla Antonia Airoldi Mazzotti è morta a 98 anni nel 2023. Resta la Fondazione ad operare in progetti con scuole e associazioni guidata da una nipote di Cristina. A Galliate nel Novarese luogo della discarica dove il corpo di Cristina venne ritrovato hanno posto una targa commemorativa. Ad Eupilio, luogo del rapimento, c’è la scuola primaria Cristina Mazzotti. In Calabria nessuna epigrafe o iniziativa. Abbiamo dimenticato. Resta la cronaca giudiziaria di un processo a 4 nonnetti ‘ndranghetisti che insieme ai loro capi e compari molto hanno contribuito alla “damnatio memoriae” della Calabria.
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Lunedì prossimo a Macchia di Casali del Manco a Spezzano Piccolo verrà riaperta al pubblico con un nuovo allestimento la Casa Museo del ministro Fausto Gullo scomparso mezzo secolo fa. Sarà inaugurata anche una mostra. Una bella notizia. Gullo è passato alla Storia come il ministro dei contadini, ma fu anche Guardasigilli. Dovremmo ricordarne anche il pensiero garantista e laico. Nel 1967 fu l’unico comunista ad aderire all’anno anticlericale promosso dai radicali e fu presidente della Lega italiana per il divorzio. Chissà il grande avvocato cosa direbbe oggi che l’Unione delle Cameri penali propone al governo Meloni una condanna pecuniaria pesantissima per quei giornalisti che vogliono disobbedire al bavaglio pubblicando i contenuti delle ordinanze di custodia cautelare. (redazione@corrierecal.it)
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