COSENZA «Sono diventato un mostro per vendere l’anima a Cosa Nostra». Giovanni Brusca si racconta in “Uno così”, il libro-dialogo di don Marcello Cozzi, in libreria. «Sono diventato un mostro per vendere l’anima a Cosa Nostra, perché credevo in Totò Riina, e poi scopro che voleva farmi fuori (…) mi sono chiesto a cosa fosse servito fare tutto quello che avevo fatto per un uomo che io vedevo come fosse Dio in terra. è vero, Cosa Nostra scomparirà se i suoi capi resteranno senza eserciti». Le parole del pentito, l’uomo che il 23 maggio 1992 premette il telecomando che fece saltare in aria il giudice Falcone, sua moglie e gli uomini della scorta, sono contenute nel libro-dialogo. Il testo è frutto di numerosi incontri con Don Marcello Cozzi, ex Vicepresidente nazionale di Libera, esperto nell’accompagnamento ai pentiti di mafia e sacerdote abituato a confrontarsi con tragedie, ingiustizie e faticosi percorsi di riconciliazione.
Senza chiedere troppo facilmente di dimenticare le sue terribili responsabilità, Giovanni Brusca si apre raccontando il suo percorso, fin dagli inizi ed esponendosi al giudizio del lettore: «Fin da bambino ho convissuto con le forze di polizia», racconta a don Cozzi, «a causa delle frequenti perquisizioni che venivano a farci in casa. E così è stato inevitabile farmi di loro un’idea pessima; i miei genitori, infatti, me li facevano vedere come fastidiosi e cattivi, come se tutti i guai giudiziari di mio padre fossero colpa loro. (…) Se avessi avuto una scuola attenta, se quelli del Comune fossero venuti a cercarmi quando in quinta elementare mio padre mi ritirò dalla scuola per mandarmi dietro alle pecore, forse la mia vita non sarebbe andata come è andata e forse io non avrei pensato che era quello l’unico modo di vivere».
Il dialogo poi arriva al momento dell’affiliazione in giovane età. «Sono stato ritualmente affiliato a 19 anni, credo che sia stato uno dei più giovani nella storia di Cosa Nostra» e spiega come avvenne a partire dal primo omicidio: «Un giorno in paese si era saputo di un tentato omicidio e io non sapevo altro, ma poi i componenti di Cosa Nostra ne iniziarono a parlare davanti a me senza nessuna riserva. (…) Il parlarne alla mia presenza stava a significare che mi stavano coinvolgendo nella cosa. A quel punto, essendo stato sempre una persona con spirito d’iniziativa e desideroso di dimostrare le mie capacità, d’istinto la prima cosa che pensai di fare fu di studiarmi da vicino le abitudini della vittima. Un giorno passò da casa mia Leoluca Bagarella (…) e gli confidai che conoscevo benissimo le abitudini del potenziale bersaglio. Quando Leoluca, in modo anche provocatorio, mi propose se me la sentivo di ucciderlo insieme a lui, io non ci pensai due volte e senza troppo riflettere gli dissi che per me non sarebbe stato per nulla un problema. E difatti così accadde: nel giro di qualche ora portammo a termine l’operazione».
«Quando mio padre rientrò da Napoli, (…) mi chiamò e mi disse di rendermi disponibile per l’indomani perché dovevo accompagnarlo in un luogo. La mattina seguente mi disse di portarlo nella masseriadi contrada Dammusi (…) A quel punto mi invitarono a entrare in una stanza dove c’erano altre persone e fra di loro Totò Riina che io già conoscevo e che per rispetto chiamavo parrino (…) pensavo di aver toccato il cielo con un dito, mi sentivo preso letteralmente dai ‘turchi’, anche se in realtà non capivo che stava iniziando la mia fine…».
Gli incontri con don Marcello Cozzi arrivano ad affrontare l’omicidio del piccolo Giuseppe di Matteo. E Giovanni Brusca tiene a ribadire al sacerdote: «Marcello, fu questa l’unica cosa che dissi: “vedi cosa mi sta facendo fare suo padre”. Io a Giuseppe non l’ho mai chiamato “u cagnuleddu”. Ma questo cambia poco, quello che ho fatto, ho fatto e nulla potrà mai assolvermi» Durante i processi «le uniche volte che ho perso il controllo è quando sono dovuto ritornare su questa storia» e a proposito del pentimento: «Mi sono chiesto tante volte cosa significa chiedere perdono per la morte del piccolo Di Matteo. Non lo so. Mi accusano spesso di non mostrare esternamente il mio pentimento, ma io so che per un omicidio come questo non c’è perdono. Ecco perché mi chiedo: in simili casi, cosa significa chiedere perdono? Io lo so che è importante farlo, ma so anche che non serve né a tornare indietro né a farlo ritornare in vita, quel povero ragazzo. E allora mi dico che l’unico modo per rispettare il dolore che ho creato è stare in silenzio. Ma anche questo viene condannato». Sul suo ultimo periodo racconta: «Quando finalmente ho preso coscienza del male che ho fatto, allora per me è stato come entrare in un incubo senza fine».
Nel corso della sua carriera criminale Giovanni Brusca ha avuto modo di confessare quanto di sua conoscenza in merito ai rapporti tra Cosa Nostra e la ‘ndrangheta. Le sue dichiarazioni, rilasciate nel corso del processo “‘Ndrangheta stragista” confermano il legame tra la mafia siciliana e calabrese. Il pentito parla e fornisce dettagli anche sull’omicidio del giudice Antonino Scopelliti, ucciso a Campo Calabro il 9 agosto 1991. Sarebbe stato Totò Riina a spiegargli che quello del giudice doveva essere un «omicidio preventivo» ma anche «un monito per chi prendeva il posto di Scopelliti», offertosi per rappresentare l’accusa nel maxiprocesso contro i clan siciliani, all’epoca arrivato in Cassazione. Racconta Brusca di un tentativo di aprire una trattativa usando i canali calabresi. «I nostri contatti non erano andati a buon fine», ammette il pentito. E sul Capo dei Capi, avrà modo di specificare: «Io so che lui era molto amico, e si parlava anche di comparato, con i Piromalli. Non so con chi l’aveva questa amicizia e si era anche messo in mezzo per sistemare alcune faide». (f.b.)
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