VIBO VALENTIA «Fino all’anno 1995 ho affiancato mio padre Giuseppe nell’esercizio di falegnameria a Rombiolo. L’attività andava molto bene tanto che abbiamo deciso di ampliarla sia come sede di lavoro che come ambito e commesse, accedendo anche a finanziamenti statali. Trascorso qualche anno qualche anno di duro ma proficuo lavoro, ho subito un grave infortunio sul lavoro, con amputazione di tre dita di una mano. Si rese pertanto necessario un intervento chirurgico presso struttura specializzata in modo tale da assicurare la guarigione e l’uso dell’arto, costringendomi alla sostanziale inattività lavorativa e a consistenti esborsi per le cure». È la denuncia – in una lettera diffusa alla stampa – di Michele Tramontana, testimone di giustizia del Vibonese e, insieme alla ex moglie Fortunata Sangeniti, vittime di usura e di mafia.
«L’obbligo di pagamento delle rate di mutuo, le spese da sostenere mi hanno costretto a richiedere prestiti, sempre maggiori e sempre più frequenti, a chiunque: prima ai familiari, poi agli amici poi a soggetti che si rivelavano in realtà aguzzini usurai», scrive. «Nell’anno 2006, non potendo più far fronte ai pagamenti, distrutto dalle minacce e dai gravi atti intimidatori nei confronti di tutti gli esponenti della propria famiglia (incendi dell’opificio, danneggiamenti a beni e mezzi) – denuncia Tramontana – prima fugge dalla Calabria e poi, a distanza di un anno, decide di denunciare i propri persecutori, insieme ai miei familiari».
Solo dopo circa tre anni dalle denunce si apre il procedimento penale presso il Tribunale di Vibo Valentia in cui ben sei soggetti, in ipotesi appartenenti ad associazione di stampo mafioso e alla famiglia Mancuso venivano chiamati a rispondere di reati vari. «Ci sono voluti però 13 anni per arrivare ad una sentenza di condanna, emessa il 19 luglio 2023, e depositata ad ottobre». Nel frattempo, Michele Tramontana e la sua famiglia sono stati ammessi al regime di protezione quali “testimoni di giustizia”, trasferiti in un’altra regione e sradicati dal loro naturale ambiente. «Ancor prima della emissione della sentenza, improvvisamente e senza alcun preavviso, il programma veniva revocato per asserita cessazione delle esigenze, affermandosi da parte del Ministero competente, contrariamente al vero, che il processo era terminato». Il padre di Tramontana muore dopo una profonda depressione e il figlio non ha potuto neanche accompagnarlo nella sepoltura a Vibo Valentia. «Anni di soprusi, questa volta da parte di quello Stato che aveva garantito la loro incolumità» denuncia ancora Tramontana. «Basti dire che il rappresentante dell’Avvocatura dello Stato, in sede di discussione pubblica del ricorso al Tar avverso il decreto di revoca del programma di protezione, ha candidamente indicato il luogo di residenza» denuncia ancora «oppure evidenziare come il Servizio di Protezione ha omesso tempestive notifiche di un provvedimento della Commissione costringendo il tutelato a recarsi da solo in aeroporto a prelevare la anziana madre di cui era stata autorizzata la permanenza presso lo stesso».
Michele Tramontana e la moglie, nel frattempo separata, hanno aderito obtorto collo alla fuoriuscita dal programma di protezione «di cui sulla loro pelle avevano verificato la vacuità. Purtuttavia il mancato rispetto (il ritardato rispetto) da parte del Ministero delle previsioni di cui all’accordo predetto hanno condotto Tramontana e la sua famiglia alla sostanziale indigenza. «Tutte le attività intraprese e gli investimenti effettuati, infatti, si rivelavano un colossale fallimento per la indisponibilità nei tempi previsti delle somme riconosciute. A luglio del 2023 viene finalmente emessa la sentenza dal Tribunale di Vibo Valentia che condanna due degli imputati alla pena ritenuta di giustizia».
Nel procedimento in questione sono costituiti parte civile gli istanti, Michele Tramontana e Fortunata Sangeniti (coniugi all’epoca non separati) oltre ai genitori di Tramontana ma «non una parola in sentenza in ordine al mancato riconoscimento del diritto al risarcimento del danno in capo alle altre parti civili costituite».
Michele Tramontana, in proprio e quale erede del defunto padre, unitamente alla coniuge ed agli altri eredi, interponevano appello sul punto del mancato riconoscimento del danno in favore degli stessi ed il fascicolo veniva quindi trasmesso alla Corte di Appello di Catanzaro. Gli appellanti hanno così depositato tramite il loro procuratore avvocato Rosario Scognamiglio una prima istanza in Corte di Appello con cui chiedevano trattazione ravvicinata del procedimento, evidenziando sia la imminente prescrizione dei reati che il loro stato di bisogno. «La Corte ha respinto detta ultima istanza affermando che non vi erano motivi di urgenza e che la trattazione sarebbe stata disposta secondo la calendarizzazione ordinaria dell’ufficio. Trascorso oltre un anno dalla emissione della sentenza, ad oggi nessuna fissazione è stata disposta. Anche Tramontana è, ad oggi, bloccato nell’acceso ai fondi per le vittime di usura e di reati di stampo mafioso non essendovi sentenza definitiva; gli altri familiari addirittura dovrebbero restituire quel poco percepito. «Testimoni di giustizia. O meglio, testimoni di come viene amministrata la giustizia», denuncia ancora. Michele Tramontana recatosi in Calabria poco prima della emissione della sentenza, ha poi subìto un attentato, con alcuni spari contro la sua autovettura. Pizzini e proiettili sono stati recapitati a tutti i familiari, addirittura nascosti sulla tomba del padre, ma tutte le denunce sono state archiviate, comprese quelle nei confronti dell’amministrazione cadute nel silenzio più fitto. «Forse è una illusione che grazie a Libera qualcosa si muova, per destare coscienze sopite. L’importante è che si sappia la verità e si squarci il silenzio».
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