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Il volto dell’“assassino Turetta”, la pressione e l’alto rischio suicidario

I video della deposizione in aula di Filippo Turetta, già reo confesso dell’omicidio di Giulia Cecchettin in fase di indagine, che imperversano in tv e sui social, fanno riflettere sul valore e su…

Pubblicato il: 27/10/2024 – 10:09
di Chiara Penna
Il volto dell’“assassino Turetta”, la pressione e l’alto rischio suicidario

I video della deposizione in aula di Filippo Turetta, già reo confesso dell’omicidio di Giulia Cecchettin in fase di indagine, che imperversano in tv e sui social, fanno riflettere sul valore e sulla utilità di una tale scelta difensiva, non nel caso specifico, ma in generale, quando si è coinvolti in una vicenda di forte impatto mediatico. Partendo da una decisione delle Sezioni unite penali, precisamente la sentenza n. 10728/2022, non credo, infatti che l’esame dell’imputato serva solo a una diversa prospettazione nella dialettica processuale, ma può avere invece valore decisivo ai fini del giudizio.
Ha natura istruttoria, concorre sicuramente allo scrutinio dell’elemento soggettivo ed a tal fine è disposto anche d’ufficio ove ricorrano le condizioni concrete, non è sostituibile dalle dichiarazioni spontanee e la previsione del diritto al silenzio non vale ad escludere il valore probatorio dell’atto.
Ovviamente è solo una mia opinione critica.
Ma, quando si decide di acconsentire a che l’imputato si sottoponga all’esame invece che, ad esempio, propendere verso il rilascio di dichiarazioni spontanee, vuol dire che si è ben valutato (anche insieme al cliente) quale utilità possa avere questa strategia per la difesa. Si sceglie cosa è più opportuno fare sulla base del fatto contestato, della personalità dell’imputato, sull’impatto anche solo del modo di porsi del soggetto sui giudici popolari, su cosa possa aggiungere la voce dell’imputato a quanto già emerso nell’istruttoria. La decisione è presa solo ed esclusivamente nell’interesse della miglior difesa possibile per l’Assistito. Ancora più complesso valutare, appunto, quando si procede per fatti che hanno scosso l’opinione pubblica o quando vi è già agli atti una ammissione di responsabilità.
Evidentemente, nel caso di Filippo Turetta, immagino che, con l’idea di far conoscere l’imputato e sperare di creare empatia con i giudicanti, sia stato calcolato, messo in conto ed accettato il rischio che, sottoporlo ad esame, in un processo a porte aperte ed alla presenza di telecamere, avrebbe potuto scatenare la rappresentazione sinistra cui stiamo assistendo. Se non mi stupiscono, infatti, l’indignazione popolare, gli anatemi, gli insulti della gente comune lanciati nei confronti dell’omicida della povera Giulia Cecchettin, molte perplessità mi suscitano le acrobazie dialettiche di alcuni “esperti” proprio nell’analisi della deposizione di Filippo Turetta ed addirittura sulla presunta “strumentalità” delle dichiarazioni. Come se tutto il processo stesso non sia, proprio per sua natura, strumentale e finalizzato alla rappresentazione di tutti quegli elementi utili alle parti affinché il giudice propenda per una tesi piuttosto che per un’altra. Ma nell’analisi dell’ovvio, sono rimasta particolarmente colpita dalla faciloneria con cui molti scrutano il non verbale ed il paraverbale del ragazzo. È noto che una delle frontiere delle nuove prove scientifiche è rappresentata dalle c.d. “prove di verità”, ossia quei mezzi o strumenti tecnici potenzialmente idonei a verificare e/o promuovere la sincerità di chi renda dichiarazioni processualmente rilevanti. Ci si riferisce al “Facial Action Coding System”, ovvero un metodo di analisi del comportamento non verbale che analizza, in particolare, le contrazioni muscolari del volto.
L’espressività non verbale è stata, del resto, oggetto di studi fin dal XIX secolo quando Darwin, con il trattato The Expression of Emotions in Man and Animals, dimostrò l’universalità delle espressioni facciali rivendicando la presenza di specifiche emozioni innate come prodotto di una funzione biologica adattiva. Nei primi anni ’70 del secolo scorso, poi, lo psicologo statunitense Paul Ekman recuperò questa tesi per dimostrare l’esistenza di alcune manifestazioni emotive (emozioni primarie o di base), trasversali all’interno di tutta l’umanità e indipendenti dal contesto socioculturale di provenienza. Secondo questa tesi, l’emozione di base (rabbia, tristezza, felicità, paura, disgusto, sorpresa) si esprimerebbe attraverso espressioni del volto che utilizzano un repertorio innato e individuabile in specifiche contrazioni muscolari, per cui, il comportamento facciale-emozionale, è considerato un punto di partenza anche per la comprensione di attività cognitive (perplessità, concentrazione, noia), del temperamento e dei tratti di personalità (ostilità, socievolezza, timidezza) e della psicopatologia, quale informazione diagnostica rilevante depressione, mania, schizofrenia o disturbi meno gravi. Per quel che riguarda specificamente l’impiego di tali conoscenza nel processo penale, l’esperienza americana ci ha mostrato il loro utilizzo a fini investigativi con vere e proprie tecniche di interrogatorio, basate su strategie psicologiche che fanno riferimento alla F.A.C.S.
Recenti studi, però, di fronte a percentuali alquanto ridotte di riconoscimento della menzogna da parte dell’osservatore (56,6%), hanno concluso, per una dubbia scientificità di tale metodo.
In particolare tali strumenti conoscitivi, non sono in grado di rilevare la menzogna quanto semplicemente i segni di un’emozione: ad esempio tensione, imbarazzo, difficoltà, che sul piano processuale non possono rappresentare indici di inattendibilità dichiarativa, né possono fondare il convincimento di un giudice. Lo stato attuale degli studi nella psicologia moderna evidenzia, pertanto, una non totale corrispondenza del metodo F.A.C.S. ai criteri tradizionalmente richiesti dalla giurisprudenza americana, visto il tasso di errore accertato o potenziale del metodo. In Italia, ovviamente, si è ben lontani dal riconoscere una qualche valida implicazione processuale al predetto metodo, vista la mancanza di un approfondimento delle sperimentazioni in grado di fugare qualsiasi perplessità circa le sue qualità scientifiche. Tenuto conto di ciò, trovo, dunque, quanto meno inappropriate – visto il processo ancora in corso – ed irrispettose verso tutte le parti coinvolte, per non dire macchiettistiche, le valutazioni offerte circa la personalità di Filippo Turetta (neanche mai sottoposto a perizia psichiatrica) o addirittura l’analisi sul piano morale del riconoscimento delle proprie colpe, sulla base della disamina del suo pianto, dell’inclinazione della bocca o del movimento involontario del sopracciglio mentre viene esaminato. Non solo perché assolutamente prive di senso, ma perché senza alcuna valenza in relazione alla ricerca del motivo per cui la vita di Giulia Cecchettin sia stata così tragicamente spezzata.
Cercare di dare un senso agli agiti criminali è certamente una esigenza sociale più che giuridica, ma prospettare come verità scientifiche ed inoppugnabili suggestioni opinabili è da considerarsi disinformazione spregiudicata e dolosa.
Mi viene da chiedere cosa ne penserebbero i divulgatori di tali “verità” se altri si cimentassero nell’analisi del loro non verbale mentre formulano giudizi. Ci sarebbe da evidenziare il loro sguardo rivolto per pochi secondi verso il basso, le loro spalle ricurve, la loro scarsa salivazione, l’eloquio accelerato mentre si analizza con malcelato piacere l’assassino. Sarei portata ad affermare, applicando i medesimi principi, che quelli appena elencati sono tutti indicatori di insicurezza e scarsa padronanza della materia, ma per onestà intellettuale li attribuisco ad una normale tensione da telecamera.
Ad ogni modo, posto che chi si professa assiduo frequentatore delle aule di tribunale, soprattutto se avvocato o consulente, dovrebbe avere una maggiore sensibilità e una più approfondita conoscenza dei meccanismi che si innescano quando ci si esprime con troppa leggerezza su alcuni temi, perché l’effetto che possono avere le affermazioni degli “esperti” sull’opinione pubblica e, inutile negarlo, anche sui giudici popolari, può fare la differenza. Un professionista dovrebbe mantenere sempre adeguato distacco e parlare con serietà e cautela, anche rischiando di apparire impopolare.
Forse facendo questo sforzo, guardando quelle immagini, si riuscirà a vedere senza particolari abilità divinatorie quello che gli studi scientifici e l’esperienza professionale consentono di vedere nel volto dell’“assassino Turetta”: solo un soggetto incapace di sostenere la pressione di un esame e ad alto rischio suicidario, su cui non è utile a nessuno infierire.

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