Si racconta che ai tempi della prima repubblica, da Ettore Bernabei in avanti, le assunzioni giornalistiche in Rai avvenissero seguendo questo criterio: il 40 % toccava ai democristiani, il 30 % ai socialisti, il 10 % ai comunisti, il 5 % ai socialdemocratici, il 5 % ai repubblicani e il 10 % ai bravi. Questi ultimi comunque dovevano avere le credenziali di qualche personaggio importante. La Dc, poiché al suo interno copriva tutto l’arco costituzionale, si prendeva anche in carico sia la destra liberale e missina e sia le frange cattocomuniste. Naturalmente tali quote erano fluttuanti a secondo delle congiunture politiche. Nonostante il manuale Cancelli fosse rigido, tra le maglie degli ingressi in azienda, la televisione di Stato ha accolto personaggi di qualità. Uno di questi è stato il giornalista sportivo Beppe Viola, morto il 1982 all’età di 43 anni.
Stazza alla Gerry Scotti, anch’egli lumbard, aveva fatto cabaret al Derby di Milano con Enzo Jannacci. Quando apparve sui teleschermi quell’omone provocò un terremoto perché, in un ambiente uso ad una costumanza timorata e perbenista, con la sua sottile ironia anticipò di almeno 20 anni la parte migliore di una televisione che, a tratti, sarebbe diventata moderna e pluralista. Il grande Gianni Brera, suo estimatore, emulo gaudente in originalità e libagione, alla sua morte scrisse: «Era nato per sentire gli angeli e invece doveva frequentare i bordelli».
Viola una volta si raccontò: «Sono entrato alla Rai nel 1961 dopo aver risposto alla domanda “lei è comunista?”. Ho incominciato a lavorare alla redazione sportiva, pagamento a cachet. Questo rapporto è durato qualche anno, fino a quando è stata approvata la legge sull’ordine dei giornalisti. La Rai redasse un elenco di persone da assumere ed io ero tra loro. Ogni tanto dovevo andare a Roma per un colloquio coi capi (così dicevano). In realtà si trattava di un esame informale per stabilire quale fosse il mio grado di cultura. Non si può infatti chiamare colloquio l’incontro con alcuni signori che ti chiedono: “Scusi cosa significa Adigrat?”; oppure: “Che cosa faceva De Gasperi durante il fascismo?”. Sì, onestamente, erano esami, diciamo così, di cultura generale. Al di là del tavolo erano seduti Beretta-Anguissola, Jacobelli, Rossi (Emilio), Manusardi ed altri signori provvisti di solide basi culturali. L’esame vero e proprio lo sostenni a Milano. Questa volta al di là del tavolo c’erano personaggi più conosciuti fuori dall’azienda. Enzo Biagi, Dino Buzzati, Rubens Tedeschi ed altri. “Secondo lei”, chiese Biagi, “Fanfani nello schieramento Dc sta a destra o a sinistra?”. “Dipende dai giorni”, risposi io. Sorrisero e mi dissero che poteva bastare. Per loro ero promosso».
Gli interessi di Beppe Viola erano fondamentalmente culturali, e si esprimevano mettendosi in sintonia con l’anticonformismo possibile a quel tempo; che in lui non fu mai aristocratico o narcisistico, sia che facesse una telecronaca sportiva, sia che sceneggiasse un lavoro teatrale (sì, era anche brillante sceneggiatore), sia che collaborasse col suo amico di pazzie Jannacci. Questa sua capacità di essere sempre sé stesso lo rendeva diverso davanti alla platea dell’immenso pubblico televisivo. Sul piccolo schermo è difficile, specie quando di mestiere sia fa il mezzobusto (“mezzobusto”: neologismo coniato dal critico dell’Espresso Sergio Saviane), avere dai capi la corda lunga. Ancor più difficile essere, ad un tempo, brillante ed essenziale. Viola riusciva a riunire queste due qualità ed è questo il motivo per cui era tanto simpatico alla gente.
Il suo stile era inconfondibile. Tipo: la squadra del Bari una domenica andò a giocare a San Siro contro il Milan. Al sesto gol gli spalti diventarono una coglionetta. Tutti a ridere e a schernire i mal capitati galletti (non solo i francesi si pregiano della definizione pennuta). Si alzò un inferocito tifoso barese e, tra le lacrime, disse ai futuri leghisti: “Viva Bari italiana!”. Poteva sfuggire questo siparietto a Beppe Viola?
Gli sportivi incalliti e i tifosi accecati lo avevano mal digerito all’inizio, ma Viola riuscì ad imporre quel suo humor schietto, il contatto umano, la fantasia, l’improvvisazione, la sintesi.
Uno anno prima di morire Beppe Viola pubblicò una raccolta di elzeviri dal titolo emblematico: “Vite vere, compresa la mia”. Inutile dire che la prefazione gliela fece Enzo Jannacci che lo canzonò da par suo, con questo finale: «Viola quando non mugola recita delle giaculatorie e ne ha ben donde. Finché esistono individui come lo Jannacci che per i motivi che saranno anche comprensibili si comporta in quel modo lì, cioè non lo leggono, fa benissimo. Solo che certe volte esagera. Ieri sera in via Cadore si sono scontrati due pullman di non lettori diretti a Pisa per il mai dimenticato corso di semiotica di Umberto Eco della durata di quattro anni: 40 morti. Spariamo che domani non tiri su anche lui un tendone e si metta a cantare. Non Viola, Eco».
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