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Figlio unico per sempre. Rino 29 ottobre

Il rischio del mito è lo stesso di chi fu soldato, cadere al suolo colpito da una tegola volata dal tetto. Per restare nella storia, per chiunque, in qualunque campo, il tempo non può andare oltre…

Pubblicato il: 29/10/2024 – 10:35
di Gioacchino Criaco
Figlio unico per sempre. Rino 29 ottobre

Il rischio del mito è lo stesso di chi fu soldato, cadere al suolo colpito da una tegola volata dal tetto. Per restare nella storia, per chiunque, in qualunque campo, il tempo non può andare oltre certi limiti. Bisogna morire in battaglia, altrimenti si finisce per sostenere, dietro lauto compenso, le gesta di una multinazionale dell’energia, una banca, una assicurazione. Alimentato il fuoco della rivolta e del contropensiero ci si ritrova a comporre sul cellulare il numero dei vigili del fuoco. Un cannibale con la dentiera non è uno spettacolo bello da vedere. I figli unici il palco lo lasciano prima che il tempo vinca l’orgoglio e tutto, giustamente, si trasformi in farsa. Rino non poteva farsi banalizzare dagli anni, metabolizzare dagli agi, imparare a memoria il proprio iban e codice fiscale perché non si perdessero minuti preziosi nel predisporre i bonifici. Voleva restare ai margini, senza aver mai chiesto scusa a Susanna Agnelli, ancora figlio di un portiere emigrato dal solito Sud. Figlio unico per sempre. Lo scelse il cane che lo abbordò lungo il corridoio del Rapido Taranto-Tunisi e lo vinse disputandoselo in una gara di sputi contro una geologa di Corigliano e una trapezista di Girifalco. Se lo portò giù dal treno tenendolo al guinzaglio in una fermata non prevista per fare rifornimento di nafta a ridosso dei Calanchi azzurri di Palizzi. Con una scusa gli fece attraversare il binario unico e lo mollò in mezzo a un esercito di pistoleri. Il treno ripartì, Jack Beauregard smontò da cavallo, si prese la sella e la piazzò per terra. Preparò il fucile. Il cane inforcò gli occhiali si mise comodo sopra un’amaca stesa fra due agavi ai margini della 106, aprì il taccuino e cominciò a scrivere le domande che avrebbe posto ai sopravvissuti:1) capire il Sud?2) l’ultimo poeta è morto il 2 giugno 1981?3) statale 106?4) Zoro non è Pasolini?5) gelati Gelca?6) restare è un po’ morire?7) tornare sì, ma dove? la nduja fa cagare? Rino Gaetano era soprattutto un contrabbandiere messicano, uno da cielito lindo nato per vivere e morire attraversando frontiere, con gli speroni d’argento e le tacche a segnare il calcio delle pistole. Riteneva il fatto di ricordare il dittongo da adulto una delle sue più grandi qualità; le sue sono le canzoni allegre più tristi al mondo, aiaiai è quanto di più anti musicale e musicale insieme. Lui, è tutto e il contrario di tutto, così intensamente vivo da essere morto da subito per questo si è sempre dilettato di raccontare la sua fine da ben prima del 2 giugno 81. Una fine che lo disperava perché sarebbe avvenuta lontano da dove era nato, Crotone, città che aveva visto molto di meno rispetto a Roma, il suo non era un legame al posto, era l’impastamento al luogo, il suo luogo assoluto, il Sud. Un Sud qualunque come era un Sud qualunque la Calabria. Era il figlio di ogni Sud, come tale aveva infisso nella genetica la morte ad altra latitudine. Morto solo, con i suoi pur essi lontani. Non fu un famigliare a riconoscerne il corpo, come spesso capita a molti del Sud: muoiono lontano e soli, i resti li certifica uno straniero. E la sua vita è finita come se stesse in Calabria, quarant’anni prima o fra quarant’anni, nel 1981 o nel 2021: cercando un posto in ospedale. Lui, come quelli di giù, è stato per sempre del Sud, a Sud di tutto. Come tutti i suoi fratelli di latitudine non si è mai perfettamente integrato, perennemente fuori posto. Riottoso, ribelle, irredimibile, bandito nella definizione di Pasolini per quelli di Cutro. La fama, i soldi, i bagliori di un’alba boreale non gli sono mai appartenuti. Eppure era luminoso, scintillante, ma si sentiva figlio del tramonto, costretto ad annegarsi nel mare o dietro i monti ogni sera. Era chiaro che si sarebbe stancato di fare albe per illuminare gli altri. Stretto, avvinghiato al nero del lutto più nero delle donne meridionali. Confuso e risoluto come Gianna che non sapeva se fosse più giusto prima diventare donna o prima impegnarsi in politica, che non sapeva ciò che fosse giusto in generale, che come tutti i figli unici la giustizia non la incontreranno mai e il massimo della rivincita sarà stare sugli spalti a seguire un Frosinone davvero in serie A. Troppo in anticipo per non sorpassare la modernità lasciandosela dietro col gesto dell’ombrello. Rino è finito dentro al futuro arcaico teorizzato da Nik Spatari, ci sta seduto al tavolo a giocare a tressette con Rocco Carbone, arrivato anche lui da Sud e finito sul tavolo del medico legale dopo uno scontro ampiamente previsto. Gente che viaggia avanti e indietro nel tempo e sa che non saranno i complotti, i nemici ipotetici, a portarseli via. Torneranno alla dimensione che li ha partoriti, quella dei delusi, con le palle piene ma senza sconfitte. Lo spirito della sua dimensione di origine è diventato musica per spaccare i timpani delle orecchie a quella parte di umanità che quel mondo lo aveva lasciato da secoli e si era persa l’anima dell’uomo: le razze sono un’invenzione dei tristi, di quelli che dopo un lungo viaggio abbiano smarrito la via del ritorno e casa è solo un fumo vago. L’unica divisione possibile era fra chi sapeva troppo e chi non sapeva nulla, e Rino non ci riusciva a separarsi da una conoscenza dolorosa per sposarsi a un’ignavia cinica. La sua Volvo aveva un motore da missile, lo portava rapido come la luce, un solo pianeta non poteva bastargli e la terra gli stava troppo stretta e l’Occidente era un treno spompato che perdeva tempo per non raggiungere nessuna stazione. Quasi nessuno dei cattedratici sudici che hanno preteso di studiarlo lo ha compreso, i “colti” del Sud al massimo ne hanno sfruttato la fama e dopo gli hanno dato del piagnone. Oltre che musica è stato letteratura, la migliore letteratura del Sud, quella senza retorica, senza subalternità, abbracciata al proprio nero con coscienza senza rimpianto, legato a quello spirito che non si può lasciare senza rimanerne fulminati, o svuotati. Ora continua a finire oltre i monti, in fondo al mare, illumina la strada ai propri fratelli perché possano almeno morire a casa, pure se non c’è vicino l’ospedale. Costruisce cieli sempre più blu per tutti quelli che ostinatamente non ci rinunciano a rimanere figli unici

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