CASSANO ALLO JONIO Auto incendiate, omicidi tentati e consumati, estorsioni e spaccio di droga. Se la politica continua ad interrogarsi sull’opportunità di dar vita alla provincia della Sibaritide, c’è un territorio costantemente minacciato dalla criminalità organizzata che non perde occasione per mostrare i muscoli e ribadire il controllo su alcune zone della vasta area del Cosentino. Lo raccontano con dovizia di particolari le cronache quotidiane, lo mettono nero su bianco gli investigatori impegnati costantemente nella lotta e nel contrasto di ogni forma di criminalità.
La ‘ndrangheta non arretra neanche dinanzi le operazioni di polizia e sono molteplici quelle portate a termine nel corso degli ultimi anni ed alle quali sono seguiti procedimenti, ancora in corso. È il caso del processo celebrato con rito abbreviato e legato all’operazione nome in codice “Athena“. Lo scorso 23 ottobre, al termine di una requisitoria lunga tre udienze, il pm della Dda di Catanzaro Alessandro Riello, che rappresenta l’accusa nel processo, ha invocato pesanti per quasi tutti gli imputati. Vent’anni di carcere sono stati chiesti per Francesco, Luigi, Leonardo, Nicola e Rocco Abbruzzese. Sei le assoluzioni.
Una requisitoria lunga quasi 12 ore, suddivisa in tre step, nella quale il pubblico ministero ha avuto modo di passare in rassegna tutti i capi di imputazione contestati agli imputati, cristallizzare il presunto modus operandi dei clan, circoscrivere episodi e soggetti coinvolti, ricostruire uno spaccato tanto eloquente quanto drammatico della Sibaritide. «Negli ultimi anni è stata una vera polveriera, sul piano della presenza della criminalità organizzata che non ha disdegnato di mostrare il proprio volto più cruento, tanti fatti di sangue sono stati commessi in quell’area, non sono oggetto di questo processo, ma sono il segno di una ‘ndrangheta che non si mostra esclusivamente nelle sue vesti imprenditoriali», esordisce Riello. La prosecuzione è in realtà la premessa della complessa attività di indagine svolta in un territorio particolarmente difficile. «Certamente la Sibaritide è diventata un’emergenza, anche sul piano dell’ordine pubblico e in questa indagine occorreva certo colpire delle responsabilità penali, precise, non affrontare un fenomeno, ma è evidente che occorreva una strategia precisa». La domanda che muove l’azione del pubblico ministero è una: come si combatte una cosca? Il riferimento è al clan degli Abbruzzese, oggetto del procedimento “Athena”. «Una cosca che occupa quell’area da oltre vent’anni e che si è legittimata nel contesto ‘ndranghetistico, l’etnia room non è stata un ostacolo all’inserimento organico nella criminalità organizzata, poiché a suon di omicidi e attraverso in particolare le proprie capacità militari questo gruppo si è legittimato all’interno della criminalità organizzata nel suo complesso e abbiamo riscontrato in questa indagine anche dei rapporti con delle cosche estranee anche al territorio calabrese». Il quadro a tinte fosche tratteggiato dal pm antimafia ricorda quanto già ricostruito nella requisitoria del processo di primo grado celebrato in Corte d’Assise a Cosenza, riferito al duplice omicidio Scorza-Hedli: la coppia venne brutalmente uccisa a Castrovillari. In quella occasione, Riello fece riferimento« alla ‘ndrangheta che sta mettendo a ferro e fuoco la Sibaritide».
Un groviglio di strade conduce alla frazione Lauropoli e spalanca le porte del quartiere popolare “Timpone Rosso“, diventato roccaforte della criminalità e dove un ramo della famiglia Abbruzzese di Cassano allo Ionio si è stanziata oramai da decenni. E’ in quelle stradine – strette tra una piantagione di ulivo ed un ammasso di rifiuti abbandonati – che gli investigatori concentrano l’attenzione nell’ambito dell’inchiesta “Athena”. «Non esiste zona franca nel quartiere di Timpone Rosso, abbiamo messo delle orecchie in ogni angolo, in ogni strada grazie alle intercettazioni, in particolare telematiche, che hanno costituito una prova formidabile e hanno consentito di assistere in diretta a molti
dei reati», racconta in aula il pm riferendosi ai giudici.
Sebbene i rapporti tra gli Abbruzzese di Cassano allo Jonio e i cugini di Cosenza (meglio conosciuti come “Banana“, ndr) non siano stati sempre idilliaci, per il pm Riello il concetto di famiglia – con riferimento al clan di etnia rom – diventa cruciale nell’analisi della cosca: sia in relazione all’organizzazione della stessa e sia per quanto concerne la capacità di all’interno del microcosmo di parentele e affiliati qualsiasi azione legata alla commissione di reati. «La cosca Abbruzzese, faceva della propria struttura familistica la propria caratteristica principale, si riteneva – almeno prima di questo procedimento – impenetrabile». Nel processo, il contributo dei collaboratori di giustizia è «assolutamente marginale», precisa Riello. «Gianluca Maestri e Ivan Barone hanno optato per la collaborazione in una fase successiva rispetto alla chiusura delle indagini».
Ma torniamo alla famiglia.
L’accusa ritiene vi siano due vertici delle consorterie, Pasquale Forastefano da un lato e Luigi Abbruzzese (fino a quando è stato in libertà) e Nicola Abbruzzese dall’altro. Le due famiglie «hanno anche commesso dei reati insieme, sono stati censiti, sono stati registrati anche a frequentarsi pressoché quotidianamente». Per il pubblico ministero non c’è dubbio «è il segno di una ‘ndrangheta che mette da parte anche il sangue che è stato versato». Alleati in nome e per conto del business, un po’ come sarebbe accaduto a pochi chilometri da Cassano allo Jonio, a Cosenza, quando dopo l’omicidio di Luca Bruni “Bella Bella” i vertici della mala decisero che non avrebbero più dato vita ad una sanguinosa faida ma piuttosto si sarebbero uniti in un “sindacato di ‘ndrangheta” dotato di “bacinella” comune. Su punto, giova ricordare un passaggio delle dichiarazioni del pentito Celestino Abbruzzese detto “Micetto” ed ex esponente degli “Zingari” di Cosenza. Si tratta dell’unico soggetto che si pente e che rompe l’omertà familiare. «Racconta che questa alleanza non era andata giù a tutti, perché c’era chi aveva versato sangue e quindi aveva degli stretti familiari morti, oppure aveva degli stretti familiari che stavano subendo delle dure condanne, all’ergastolo per dei fatti commessi in quella faida». Eppure si sarebbe arrivati a questo accordo. Anche se, per la Dda «i cassanesi rispetto ai cugini cosentini hanno assunto anche un ruolo certamente di maggiore prestigio, hanno costituito il principale e pressoché esclusivo canale di approvvigionamento per l’eroina, anche portata nella città di Cosenza». Un clan ha bisogno della famiglia, ma non basta. Servono alleati. In riferimento agli Abbruzzese di Cassano allo Jonio «vengono censiti rapporti con una famiglia di Bari» e proprio nella città pugliese Leonardo Abbruzzese viene catturato dopo essersi reso latitante. (f.benincasa@corrierecal.it)
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