La Calabria si fregia di avere, insieme alla Basilicata, il parco nazionale più esteso d’Europa, il Pollino: 182.000 ettari di montagne, picchi rocciosi, foreste, pascoli, torrenti piccoli paesi, campagne aulenti, storie, tradizioni, monumenti, culture, civiltà. Il primato è contestato: il Parco dello Stelvio, insieme agli altri tre parchi (uno svizzero e due italiani) che confinano con esso, dà vita ad un’area protetta complessiva di ben 400.000 ettari. Ma a noi meridionali, si sa, piacciono i primati roboanti e, fisiologicamente, siamo più inclini alle parole che ai fatti: dovremmo, piuttosto, compiacerci di avere aree protette ben gestite, tutelate e valorizzate.
Comunque sia, il Pollino è certamente uno dei parchi nazionali più grandi, belli, ricchi di biodiversità e di cultura del Vecchio Continente. Ma non è merito dei calabresi, intesi come popolo. E non lo è nemmeno della politica e degli amministratori locali, salvo poche eccezioni. Fosse stato per costoro avremmo avuto una piccola riserva attorno alle vette più alte del Pollino e niente più. Fu il WWF, nei primi anni ’90, a proporre e ad ottenere una perimetrazione molto ampia, dapprima in Calabria e poi, per compensazione, anche in Basilicata. Si ottenne così un risultato che oggi, nel clima da controriforma ambientale e culturale in cui viviamo, sarebbe impossibile.
Ma non è della storia del Parco Nazionale del Pollino né di tutto il parco che voglio parlare. Il tema, più specifico, che mi preme affrontare qui è il perché, per raggiungere “il cuore del parco” (così Giorgio Braschi, uno dei pionieri del Pollino, definì la zona degli altipiani centrali contornati dalle vette più elevate e sontuosamente ornati dai famosi pini loricati, che ricade nei territori di entrambe le regioni) si è, di fatto, obbligati ad accedervi dal versante lucano. Della serie: amiamo i primati ma lasciamo che se li godano gli altri. Tutti i punti di partenza delle escursioni a piedi serviti da comode strade asfaltate stanno, infatti da quel lato: Colle Impiso, Acqua Tremola, Madonna del Pollino, Lago Duglia. Sul lato calabrese, viceversa, vige una sorta di menefreghismo patologico. Quasi nessuna delle località di partenza degli itinerari pedestri che portano al cuore del parco da quel versante è, invece, servito da strade effettivamente carrabili e, laddove ve ne sia una è quasi sempre impraticabile. Penso a Valle Piana e Valle Cupa, in territorio di Castrovillari. Penso a Colle della Scala e Colle del Calderaio in territorio di Frascineto. Penso, soprattutto, all’alta valle del Raganello, in territorio di Civita. E dire che il Cai (Club Alpino Italiano) di Castrovillari, su incarico dell’ente parco, ha negli anni debitamente segnato decine e decine di itinerari dal versante calabro della zona centrale del massiccio. Siamo al paradosso: i visitatori, i camminatori, gli escursionisti vorrebbero fare i percorsi a piedi numerati e segnalati dal Cai ma non possono raggiungere in auto i punti di partenza che lo stesso ente parco ha scelto.
Fra questi, il caso più emblematico è il bivio per Casino Toscano (edificio storico di quella zona) lungo la strada a fondo naturale ma incredibilmente dissestata che da Colle Marcione (territorio di Civita) prosegue verso la Falconara, nell’alta valle del Raganello. Strada che addirittura si congiunge (meglio dire si congiungerebbe, visto le condizioni) con l’altra, che proviene da S. Lorenzo Bellizzi (sempre in Calabria) e porta a Terranova del Pollino (in Basilicata). Sino a Colle Marcione (10 km da Civita) la strada è asfaltata. Ma, poco più avanti diviene a fondo naturale. Per giungere al bivio per Casino Toscano vi sono altri 10 km di strada a fondo naturale. Da quel punto di partenza si snoda un percorso a piedi che consente, in non più di due ore e mezzo (guarda caso ricongiungendosi ad un importante percorso che sale dal lato lucano), di raggiunge uno dei luoghi più iconici del Pollino, la Grande Porta del Pollino, da cui si può poi salire su Serra delle Ciavole (a sinistra) o a Serra di Crispo (a destra) in mezzo ad un vero e proprio giardino naturale di pini loricati colossali.
Inutile dire che quel punto di partenza è pressoché irraggiungibile in auto sia per via del fondo stradale che per l’assoluta mancanza di segnaletica stradale adeguata. Ma vi sono almeno altre due ragioni per cui quella strada andrebbe sistemata, segnalata, manutenuta, resa carrabile definitivamente. La prima, più importate di tutte, è che nell’alta valle del Raganello vivono e lavorano diverse famiglie di contadini e pastori, con attività economiche che definire “eroiche” è limitativo. Queste persone, che meriterebbero di essere dichiarati immediatamente “cavalieri del lavoro”, hanno diritto di avere finalmente una strada degna di questo nome che consenta loro di vivere dignitosamente, accompagnare ogni giorno i figli a scuola, migliorare le loro condizioni di vita anche d’inverno, quando lassù si accumula la neve e non viene mai spalata. E non è necessario asfaltare la strada, perché esistono moderne tecniche di consolidamento delle carrabili a fondo naturale anche con materiali eco-compatibili (ce ne sono esempi anche in Calabria). La seconda ragione è che tutta la valle è un unicum geomorfologico, paesaggistico, naturalistico. Circondata da alcune delle più importanti montagne del massiccio, le cosiddette “timpe”, fra cui la spettacolare Timpa di S. Lorenzo, che dalla cima (m. 1652) cala a picco, per ottocento metri, sul fondo delle gole alte del Raganello, essa costituisce uno dei paesaggi più scenografici dell’intero Appennino Meridionale. Un luogo che, da solo, meriterebbe di essere dichiarato Patrimonio Unesco e che dovrebbe divenire un esempio pilota per tutto il Sud, nel quale sperimentare un metodo per arginare sul serio lo spopolamento delle aree interne. Si assicurerebbe così, a chi vi abita, un futuro dignitoso nelle loro terre ancestrali, e nello stesso tempo di aver restituito tutela e valore ad uno dei paesaggi più belli al mondo. Attendiamo con fiducia – ma anche reclamiamo con forza – che la Calabria e i calabresi si accorgano delle loro miniere d’oro e, senza cavare il metallo prezioso, lo lascino dov’è: tanta gente dalle sempre più folli metropoli europee pagherebbe qualunque prezzo per ritrovare i nuovi lussi, come li definisce il filosofo francese Thierry Paquot, delle società post-moderne: spazio, tempo, silenzio.
*Avvocato e scrittore
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